Salute
Il disturbo da lutto persistente: sintomi e trattamento. Intervista allo psicologo Fabrizio Gaoni
ROMA, 28 GENNAIO 2019 - Dolore, rabbia, sconforto, umore depresso, frustrazione e avvilimento, sono soltanto alcuni degli stati emozionali che prova chi vive un lutto. Ogni soggetto affronta la morte e ciò che ne consegue in modo personale, tende ad elaborare spontaneamente le strategie adattive per superare il trauma, ma non sempre riesce a lasciarsi alle spalle questo delicato percorso senza portare con sé profonde ed estenuanti ferite, che potrebbero compromettere l’equilibrio psicologico e generare una escalation di malessere.
Credit immagine: Diego Turri
Cosa accade se le difficoltà originate dalla morte di una persona cara non regrediscono nel corso di un anno e non vengono superate le fasi tipiche di un evento luttuoso? Per affrontare questa problematica, abbiamo chiesto delucidazioni allo Psicologo Fabrizio Gaoni.
Dottor Gaoni, in cosa consiste l’elaborazione del lutto e quali sono le fasi attraverso le quali si concretizza?
“L'elaborazione del lutto è quel processo a cui tutti noi andiamo incontro quando muore una persona a noi cara. Secondo John Bowlby ('Attaccamento e perdita', 1980) ci sono quattro fasi. La prima è lo stordimento: non riusciamo a cogliere quanto è successo, di solito dura per alcuni giorni. La seconda è la ricerca: inconsciamente cerchiamo ancora la persona perduta, ci capita di rivolgerci a lei quando siamo soli o durante una conversazione con qualcuno, e questa fase di irrequietezza dura generalmente alcuni mesi. La terza fase è la disperazione: ora prendiamo piena consapevolezza che la persona è perduta in modo definitivo, che non la riavremo con noi in questa vita, e sperimentiamo vissuti di stampo depressivo. Infine, la quarta fase è quella della riorganizzazione: ritroviamo l'interesse abituale per il presente e manteniamo un legame con la persona morta attraverso l'immagine che ne portiamo dentro. L'intero processo per svolgersi nei tempi normali deve compiersi entro un anno dall'evento luttuoso”.
Quando si sconfina nel patologico?
“Innanzitutto quando è passato oltre un anno dalla morte della persona cara e noi siamo ancora impegnati in una delle prime tre fasi. Conosco persone che sono in una condizione di lutto da tre, cinque, dieci anni, persone per cui il tempo si è fermato. Ecco perché viene detto disturbo da lutto persistente e complicato. Inoltre, nel lutto persistente il dolore è come una cappa nera che avvolge tutta la vita quotidiana della persona, per cui dal momento del lutto ogni cosa le sembra perdere significato, colore, interesse, gioia”.
Quali sono i sintomi del disturbo da lutto persistente complicato?
“Incapacità di accettare la morte della persona cara,senso di colpa o di risentimento per la sua morte, evitamento di luoghi e persone che possono richiamare la perdita, sensazione di essere soli e di non farcela senza la persona deceduta, difficoltà a pianificare il futuro sia a livello di relazioni sia di attività. Nei casi più estremi, può esserci anche il desiderio di morire per ritrovare la persona perduta”.
Esistono dei fattori di rischio? E in quali casi il suicidio rappresenta un rischio concreto?
“Se la persona che vive il lutto soffre o ha sofferto di depressione, ci sono molte probabilità che sviluppi un disturbo da lutto complicato e potrebbe anche avere pensieri suicidiari. Il rischio è elevato anche quando una persona ha una ridotta vita sociale e perde il coniuge che faceva da punto di riferimento. Ci può essere rischio quando la persona ha già vissuto altri lutti importanti, soprattutto se a breve distanza. Infine, sono in una condizione di particolare fragilità anche i genitori che perdono un figlio, soprattutto se era l'unico figlio. In tutti questi casi, è fondamentale prima di tutto che ci sia una rete sociale forte attorno alla persona in lutto, possibilmente fatta sia di familiari sia di amici. E se il dolore supera una certa soglia, è bene rivolgersi per una valutazione ad uno psichiatra (terapia farmacologica) e ad uno psicologo (cura della parola). Spesso sono le persone della rete sociale a rendersi conto quando la soglia è stata oltrepassata e a convincere chi è in lutto a rivolgersi agli specialisti”.
In cosa consiste il trattamento psicologico del disturbo?
“L'elaborazione del lutto è un processo naturale, perciò 'lutto complicato' significa che il processo si è bloccato. Per sbloccarlo è necessario far esprimere al paziente le proprie emozioni, che spesso non ha condiviso abbastanza con le persone accanto a lui, magari per il timore di causare tristezza negli altri, di essere visto come una vittima, o perché ha creduto di dover apparire forte agli altri familiari che hanno subito il lutto (pensiamo a chi perde il coniuge e ha dei figli da dover crescere da solo). Spesso è presente una disperazione nera, depressiva, di cui lo psicologo deve saper prendersi cura senza affrettare i tempi di un ritorno alla serenità. Un'altra emozione è la rabbia: rabbia perché si è stati abbandonati dalla persona morta. Anche se non è morta per sua scelta, il vissuto è l'abbandono. E poi il senso di colpa: non averla potuta salvare o non averle dimostrato sufficiente affetto finché era viva. Sono sentimenti molto complessi perché sono anche contraddittori tra loro, e sono come innumerevoli nodi che si sono stretti attorno al processo di lutto e lo hanno fermato. Pertanto, questi sentimenti vanno espressi, i loro nodi vanno sciolti con delicatezza e pazienza da parte dello psicologo, e il processo di lutto può così rimettersi in moto.
Infine, la persona va accompagnata nel costruirsi un'immagine interiore del defunto e nella consapevolezza che, anche se la persona è morta, il legame non è morto; il legame prosegue per tutta la vita”.
Consiglierebbe un consulto con lo psicologo a tutte le persone che hanno avuto un lutto?
“Non a tutte. Lo consiglio caldamente in tre casi. Il primo caso è chi già in precedenza era in una fase complessa della propria vita: il lutto può essere la cosiddetta goccia (goccia si fa per dire, è proprio un'ondata) che fa traboccare il vaso. Il secondo caso è chi, oltre ad aver vissuto il dramma del lutto, lo abbia sperimentato in una forma particolarmente traumatica: ad esempio malattia improvvisa o malattia con lungo calvario fisico prima della morte, incidente umano, catastrofe ambientale, omicidio, suicidio, morte di una persona giovane (terribile è per i genitori il caso della morte di un figlio). Il terzo caso è chi a distanza di oltre un anno dal lutto ne sperimenta ancora i sintomi. Ognuno di noi ha il diritto di non vivere con la morte nel cuore”.
Si ringrazia il Dottor Fabrizio Gaoni
Luigi Cacciatori
Credit immagine di copertina: Diego Turri