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Il cattivo poeta, intervista a Francesco Patanè: "nel mio Giovanni l'eco di D'Annunzio"
Vero: Il cattivo poeta che dà il titolo al film di Gianluca Jodice, nelle sale dal 20 maggio, è il carismatico e malfermo, Gabriele D’Annunzio interpretato da Sergio Castellitto. È però su Francesco Patanè nei panni di Giovanni Comini che si apre il film, e dal suo sguardo acerbo e in evoluzione si svolge larga parte della narrazione. Genovese classe ’96, con esperienza di teatro precoce e già ragguardevole, Patanè presta fisico, idee e divisa al personaggio di un giovane federale, la cui promettente carriera nei ranghi del fascismo conosce subito l’opportunità, ma anche l’onere, di una missione delicata: tenere d’occhio da presso nientemeno che il Vate, trinceratosi nell’auto-esilio dorato del Vittoriale nell’ultimo anno di vita. L’interpretazione di Giovanni Comini è valsa all’attore la candidatura ai Nastri d’Argento 2021 come miglior attore non protagonista. Il suo Giovanni Comini, di là di un contro-canto di recitazione al D’Annunzio di Castellitto manifesta la complessità dell’ufficiale dallo zelo inscalfibile che, sedotto dalla personalità del poeta, trapassa dai tatticismi dell’infiltrato ai dubbi di un arruolato troppo giovane. Lo seduce anche Lina, con cui Giovanni vive una relazione intrigante, ma non priva di ombre. L'ombra del Duce, frattanto, fa da sfondo all'intrigo internazionale che porterà alla fatale alleanza con Hitler, modificando i delicati equilibri mondiali. Sul punto di divenire squilibri.
LA TRAMA UFFICIALE
1936. Giovanni Comini è stato appena promosso federale, il più giovane che l’Italia possa vantare. Ha voluto così il suo mentore, Achille Starace, segretario del Partito Fascista e numero due del regime. Comini viene subito convocato a Roma per una missione delicata: dovrà sorvegliare Gabriele d’Annunzio e metterlo nella condizione di non nuocere... Già, perché il Vate, il poeta nazionale, negli ultimi tempi appare contrariato, e Mussolini teme possa danneggiare la sua imminente alleanza con la Germania di Hitler. Ma al Vittoriale, il disegno politico di cui Comini è solo un piccolo esecutore inizierà a perdere i suoi solidi contorni e il giovane federale, diviso tra la fedeltà al Partito e la fascinazione per il poeta, finirà per mettere in serio pericolo la sua lanciata carriera. (fonte: 01 Distribution)
L’INTERVISTA A FRANCESCO PATANÈ
ANTONIO MAIORINO: in tanti ti hanno chiesto del rapporto con Castellitto, e non mi ci voglio diffondere. M’interessa capire, piuttosto, come ti sia mosso sul set in rapporto a un regista dalle idee così chiare come Gianluca Jodice. Nelle sue note pubbliche, ha detto di aver cercato “una regia pulita, controllata, che sapesse far parlare eventi e personaggi”. Qual è stato, dunque, il tuo apporto di attore alla dimensione del personaggio di Giovanni Comini, di fronte a una scrittura così rifinita? Come hai fatto "parlare" Giovanni Comini?
FRANCESCO PATANÈ: nella mia esperienza teatrale ho sempre sentito di provare amore per la parola. Da quando, ancora bambino, ho avuto modo di iniziare questo percorso, ho sempre nutrito un profondo rispetto per tutti i testi. Nell’incontrare Gianluca Jodice, proprio per l’importanza e la sacralità che attribuisco alla parola, non ho cambiato una virgola di quello che ha scritto. Non lo faccio mai, che sia Shakespeare o chiunque altro mi capiti. Rispetto la parola scritta perché il mio compito è di rendere concreta, carnale e sincera quella parola. Sono io a dovermi avvicinare ad essa. Il fatto che Gianluca, come ben dici, avesse le idee chiare ha reso interessante il mio lavoro, perché sapevo di non voler cambiare le parole, piuttosto di dovermi adoperare per entrare nell’umore di ogni scena, così come era indicato nella sceneggiatura. Mi è piaciuto farlo, perché paradossalmente è proprio la precisione della struttura a stimolare in me la libertà e l’invenzione. Sono sicuro che ci sono progetti in cui è fondamentale che il personaggio si scriva mentre lo si fa, ma non è questo il caso. Il mio caso, per usare una similitudine, è invece quello di un contenitore nel quale sai che ci può essere solo una certa quantità di liquido, ma all’interno del quale, quel liquido, puoi versarlo e mescolarlo come vuoi.
A.M: nell’invenzione del personaggio di Giovanni Comini, è centrale il rapporto con D’Annunzio, interpretato da Sergio Castellitto. C’è anche un timing studiato per il suo ingresso in scena. Dal momento in cui Giovanni incontra D’Annunzio, potrebbe sopravvenire il rischio che diventi il semplice occhio su D’Annunzio, che sia quasi schiacciato dal protagonista. Come è stato eluso questo pericolo?
F.P: il ruolo di Giovanni Comini, in effetti, è quello di una spia, dell’occhio su D’Annunzio. Ciononostante, il rischio che il personaggio fosse solo questo non poteva essere corso, perché la figura di D’Annunzio penetra a tal punto nella vita di Giovanni da diventare protagonista di quanto accade, anche quando non c’è. Ci sono molte scene in cui di D’Annunzio c’è l’eco, ma non il personaggio. Per esempio, Giovanni si porta qualcosa di D’Annunzio quando è a casa; quando c’è l’interrogatorio nei confronti del dissidente; nel rapporto amoroso con Lina. Il privato di Giovanni, di conseguenza, finisce per diventare protagonista più ancora dello stesso Giovanni. Il cattivo poeta è fortemente incentrato sulla sua presa di coscienza, sul suo percorso, sull’aprirsi dei suoi occhi. Per risponderti, quindi, è come se Giovanni diventasse testimone non solo di D’Annunzio, ma anche del suo stesso cambio di idee, del proprio personale percorso.
A.M: appunto, la narrazione de Il cattivo poeta è fortemente centrata sul percorso di Giovanni. Voglio allora proporti un’eresia drammaturgica. Sei stato candidato ai Nastri d’Argento come miglior attore non protagonista. Al di là delle necessità delle categorie della critica, siamo davvero sicuri che Giovanni non sia il vero protagonista, o almeno co-protagonista insieme a D’Annunzio\Castellitto? Dal tuo punto di vista di attore, chi o cos’è un protagonista?
F.P: protagonista è quello che se tolto dalla storia, la fa cessare di esistere. Riconosco che il mio Giovanni Comini non si può togliere dalla storia, ma il vero protagonista è D’Annunzio, perché se lo elimini, togli a Giovanni stesso tutto il panorama di cui si nutre e beneficia. Senza D’Annunzio, il percorso di presa di coscienza di Giovanni non ci sarebbe nemmeno. Forse inizierebbe come federale di Brescia e finirebbe come federale di Brescia. Serve, dunque, l’incontro con D’Annunzio, per questo credo sia quest’ultimo il protagonista.
A.M: immaginavo che proporre Giovanni come protagonista fosse un’eresia, e già mi preparavo a battere in ritirata. Ripiego su un altro azzardo. L’entrata in scena di D’Annunzio sembra innescare la logica mentore\recluta, maestro\allievo. Di fatto, Giovanni viene definito nel film un giovanotto che si trova in clima di guerra senza nemmeno saper immaginare cosa davvero sia la guerra. Pensi, tuttavia, che in questo rapporto col Vate il giovanotto insegni qualcosa al grande poeta? Hai discusso con Castellitto sulla possibilità che la formazione di Giovanni potesse anche, a sorpresa, invertirsi, e che D’Annunzio imparasse a sua volta qualcosa?
F.P: azzardo anche io, perché non saprei dirlo, ma credo che D’Annunzio riscopra una cura per l’altro che, probabilmente, non dico avesse perso o trascurato, ma che fosse in qualche modo passata in secondo piano nella sua vita. Nell’incontro con Giovanni Comini, per D’Annunzio c’è non solo la possibilità di far cambiare idea a un fascista convinto, bensì più in generale la possibilità di aprire gli occhi a un giovane che nemmeno sa dove sia o dove stia andando. In questa cura dell’altro da parte di D’Annunzio c’è una certa urgenza privata, un sentimento di responsabilità sugli effetti della propria azione su Giovanni. Dalla speranza di questa missione, nasce un affetto emotivo che unisce i due uomini. Giovanni, in sintesi, gli dà un rapporto umano e sincero. D’Annunzio ne aveva, naturalmente, ma ogni rapporto ha una sua originalità e unicità, e i due si donano qualcosa di bello. Succede anche nelle storie d’amore: non sono mai a senso unico.
A.M: in merito al fatto che i due si donino qualcosa di bello, ti sottopongo una riflessione su quello che ritengo una sorta di gioco delle coppie nel film Il cattivo poeta: Giovanni e Lina, Giovanni e D’Annunzio, ma anche D’Annunzio e il Duce. Quest’ultima è una coppia astratta: il regista sceglie di fare di Mussolini un non-personaggio, ologramma del potere, proiezione di sé stesso, pura immagine senza reattività. Nella dinamica della coppia D’Annunzio\Duce, come si inserisce Giovanni? C’è una mediazione, un triangolo, un’osservazione a distanza?
F.P: è un’osservazione interessante. All’inizio del proprio percorso, per Giovanni, al massimo, la coppia è formata da lui stesso e il Duce, mediata da Starace; D’Annunzio è per certi versi il terzo incomodo, il corpo estraneo, l’altro. Giovanni vede sé stesso, e non D’Annunzio, in un ipotetico dialogo con il Duce, anche se per lui Mussolini è solo l’immagine di un volto gigante, come si vede nell’ultima parte del film in una scena con Starace. Quando Giovanni si rende conto che esiste, di fatto, una coppia D’Annunzio-Mussolini, si ritrova in mezzo, come a dover scegliere tra mamma e papà. Dapprima, è dalla parte del Duce; con D’Annunzio non ha nulla da condividere. Il crescente disagio di Giovanni è nel capire che la coppia Giovanni – Duce non esiste più: è stata rimpiazzata dalla coppia Giovanni-D’Annunzio. Realizzare che esistesse una coppia D’Annunzio-Mussolini, ma che non fosse una coppia funzionante, gli consente di ricreare lui stesso un rapporto: il Duce, come dicevi tu, è solo un’immagine olografica, mentre D’Annunzio è una persona reale con cui può avvertire una concreta affinità di anime.
A.M: a proposito di coppie, dicevamo del rapporto tra Giovanni e Lina (potenziale spoiler). Il loro apparirebbe, vista la svolta quasi brutale del rapporto, come un dialogo interrotto. Da spettatore – non oso dire da critico – potrei persino restare perplesso per il modo stesso in cui Lina scompare di scena, senza che ci sia stato un confronto finale fisico e diretto con Giovanni. Ti chiedo: da attore, ti capita mai di percepire il rapporto con un personaggio come un’occasione persa, nel senso di una storia non esplorata a sufficienza? Può essere il caso del rapporto Giovanni-Lina?
F.P: bellissima domanda. Quando il dialogo tra Giovanni e Lina s’interrompe brutalmente, lui si rende conto di essere stato sempre altrove rispetto al rapporto con lei. C’è in Giovanni la consapevolezza di un’occasione persa per il rapporto avuto e non avuto con Lina. È stato preso da altri impegni, non si è mai lasciato coinvolgere in senso positivo dalla visione e dall’idea di Lina. In altre parole, non si è mai davvero abbandonato all’amore di Lina. Sono d’accordo con te quando dici che ci sono personaggi con cui senti di avere perso un’occasione, e in tal senso sono molto grato ad alcuni registi di teatro che spesso mi ripetevano, soprattutto in prova, di non fare le prove controvoglia, pensando poi di dar tutto alle repliche, in presenza del pubblico al primo ciak. Ogni prova fatta sonnecchiando è un’occasione persa. Questo succede a Giovanni con Lina: avrebbe potuto guardarla, lasciarsi aperto a quello che aveva da dire, ascoltarla. Da parte mia con Giovanni, invece, non ho rimpianti: ho saputo ascoltarlo da tutti i punti di vista – intellettuale, corporeo, fisico, a 360 gradi.
A.M: sempre muovendo da Il cattivo poeta per approfondire la tua concezione di attore, ti faccio una domanda sui luoghi del film. Immagino che condizionassero le sfumature di espressione di Giovanni: lo vediamo nella dimensione provinciale, in quella istituzionale delle imponenti e gelide architetture romane, nell’effusione atmosferica del Vittoriale. Oltre a esserti messo in ascolto del personaggio, come mi hai detto di fare, hai dovuto ascoltare i luoghi per interpretare Giovanni?
F.P: questo aspetto è stato divertente. Sono arrivato sul set con una conoscenza completa di Giovanni, senza averne dovuto studiare preventivamente i luoghi. Sono pervenuto a una tale immersione nel personaggio di Giovanni, che sono stati poi i luoghi a parlare a me attraverso lo stato d’animo che immaginavo il personaggio sentisse nei diversi contesti. Dentro la divisa di Giovanni, la grandiosità e la rigidezza dell’architettura di Roma e degli ambienti fascisti, trovava una sua corrispondenza; in quella proporzione, la sua divisa ha un senso, Giovanni prova un certo agio. Quando invece il personaggio è a Brescia, rispetto agli spazi si sente più grande e imponente: in ufficio, così come nella scena iniziale quando brinda coi paranti a casa, Giovanni si sente un gigante. È stato interessante questo cambio di prospettiva: proporzionato a Roma, un gigante a casa. Quando poi Giovanni si ritrova al Vittoriale, e non vi va mai in divisa, la morbidezza di quei luoghi gli risveglia qualcosa di diverso. Inizialmente, respinge in maniera quasi automatica tutta quella sinuosità; in seguito, c’è avverte un’adesione crescente all’atmosfera del Vittoriale. Ecco allora che il corpo si ammorbidisce, la divisa non gli sta quasi più, la calza in un modo diverso. È quindi giusto quello che dici: i luoghi hanno dettato molto nel percorso di Giovanni, proprio per come reagiva rispetto ad essi.
A.M: ti avevo anticipato che non mi sarei soffermato molto sul rapporto con Castellitto sul set, ne hai già ampiamente parlato. L’hai definito pubblicamente un mito. Certo, oltre che con Castellitto, hai avuto la possibilità di recitare nel film accanto ad attori del calibro di Tommaso Ragno, Fausto Russo Alesi, Lino Musella. Da attore che viene dal teatro, col tuo occhio allenato al teatro, hai colto nella recitazione di questi grandi interpreti quel saper recitare che è peculiare della loro stessa esperienza teatrale?
F.P: assolutamente sì, soprattutto per la fisicità. L’attore di teatro si vede dal corpo e ne Il cattivo poeta la cosa bella di questi attori è che fossero nei loro personaggi dalla punta dei capelli alla punta dei piedi. Non so come sia recitare con attori che abbiano fatto recitazione solo davanti alla macchina da presa; questo primo film che ho fatto è tutto con attori di teatro, quindi non saprei percepire la differenza. Lo stesso Castellitto viene prima di tutto dal teatro, ci è passato e ci ripassa. Quando hai a che fare con attori di questo calibro, con forte esperienza teatrale, è come se recitassi una danza molto più completa. Per intenderci, se mi dovevo relazionare con un attore inquadrato in primo piano, anche se sapevo che la macchina da presa ne inquadrava solo il viso, sapevo che la mia pancia e la sua pancia si parlavano. Non c’era l’esclusione di un pezzo della realtà per regalare alla telecamera solo ciò che era utile ed efficace, bensì c’era un donarsi completamente, un essere nella realtà del momento, qui e ora. E penso sia il teatro a insegnarti tutto questo.
A.M: proprio la fisicità e il corpo sono indicati come elementi distintivi della recitazione teatrale rispetto a quella cinematografica, in relazione alla presenza fisica del pubblico. Ritieni che dopo la pandemia questa differenza si sia amplificata? La chiusura dei teatri, secondo te, ha reso ancora più evidente la diversità della recitazione teatrale in rapporto alla percezione della presenza fisica dello spettatore?
F.P: io non credo che si sia amplificata. Quella differenza esisteva prima ed esiste tuttora, al di là della pandemia, perché pertiene alla realtà della situazione. Quando sei davanti a un pubblico, senti che c’è un insieme di persone che vibra e reagisce; quando sei davanti alla macchina da presa, chiaramente non hai la stessa percezione dello spettatore, senti l’assenza. È un qualcosa di animale, che reagisce o meno alla presenza degli altri. In proposito, è stato in effetti strano per me debuttare dopo la pandemia con un film e non con uno spettacolo teatrale. Dopo un periodo in cui, inevitabilmente, non mi sono potuto esprimere davanti a un pubblico, poterlo fare con un film, senza però avere, per l’appunto, il pubblico stesso, mi ha fatto sentire uno strano senso di solitudine. Non so se avrei reagito nello stesso modo prima della pandemia.
A.M: a luglio sarai protagonista dello spettacolo “Gradiva” di Wilhelm Jensen, una produzione Lunaria Teatro per la regia di Daniela Ardini. Ho trovato interessante che il tuo personaggio sia un archeologo ossessionato dalla figura di una fanciulla ritratta in un bassorilievo nell’atto di sollevare un piede in modo innaturale. Mi sembra che sia un personaggio che cammini sul confine tra arte e vita e che quindi abbia qualcosa in comune con la visione di D’Annunzio. Porterai in scena per Gradiva qualcosa della suggestione dannunziana de Il cattivo poeta?
F.P: l’incontro con D’Annunzio arricchirà anche il personaggio di Norbert Hanold che interpreterò in Gradiva, ma da un lato cercherò di dimenticarlo, a causa della natura stessa del testo di Gradiva. Si tratta di un’ossessione che porta il personaggio a perdere i propri punti di riferimento, per cui sarà bello, mentre agisco in quelle scene, dimenticare ogni nesso non solo rispetto alla mia vita personale o all’incontro con D’Annunzio, bensì con qualsiasi cosa che dia sicurezza. Sarà interessante riscoprire, infine, quanto l’arte e la vita, fondendosi, possano generare non solo bellezza, ma anche confusione. Ed è una confusione che dovrò saper vivere, non solo pensare, per poi ritrovarla con lucidità alla fine di questa meravigliosa esperienza.
SCHEDA FILM
Regista: Gianluca Jodice
Genere: Biografico, Drammatico
Anno: 2021
Paese: Italia, Francia
Durata: 106 min
Data di uscita: 20 maggio 2021
Distribuzione: 01 Distribution
Produzione: Ascent Film e Batisphere con Rai Cinema
Produttori: Matteo Rovere, Andrea Paris
Cast: Sergio Castellitto, Francesco Patanè, Tommaso Ragno, Clotilde Courau, Fausto Russo Alesi, Massimiliano Rossi, Elena Bucci, Lidiya Liberman, Janina Rudenska, Lino Musella
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Simona Paggi
Musiche: Michele Braga
Costumi: Andra Cavalletto
(immagini: fotogrammi dal film Il cattivo poeta, fonte: 01Distribution; si ringraziano Cristina Scognamillo e Cristiana Zoni)
Antonio Maiorino