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Premiata a Torino 2020, Anna Marziano racconta "Al largo": "solidarietà al corpo e al pianeta"
Per la rubrica UNCUT GEMS – diamanti grezzi, Al largo di Anna Marziano: le interviste di Antonio Maiorino sui migliori film d’autore del cinema contemporaneo mondiale. Spesso, inediti (in Italia), non ancora “sgrezzati” dallo sguardo dello spettatore; spesso, autentici gioielli nascosti.
Al Festival di Torino 2020, nella sezione ItalianaDoc, ha vinto il Premio Speciale della Giuria un documentario che documentava solo in parte: Al largo di Anna Marziano, forte della vena sperimentale che da anni contraddistingue la regista, si allontana dal documentario immersivo classico, tutto “vedo e riporto”, sviluppando, in ben più ampia ottica, una riflessione sulla malattia come metamorfosi dell’identità, sulla cura come necessaria espressione solidale, sulla sofferenza come tratto comune del corpo dell’individuo e del pianeta in cui viviamo. Lo fa unendo spunti personali – il film nasce dalla vicinanza a una persona cui era stato diagnosticato un male – con riflessioni estese, profonde, sfaccettate, in una creazione filmica avvolgente e audace.
LA TRAMA DI AL LARGO (QUI IL TRAILER)
L’esperienza della sofferenza, i riferimenti alle letture di Nietzsche e Donald Winnicott: ma Al largo non è né il convenzionale film sulla malattia, stile cancer movie, né un saggio di filosofia per immagini. Portando lo spettatore a contatto con l’esperienza della sofferenza, il film esplora, dissolvendolo in un fiume d’immagini e parole, il confine tra egoismo ed altruismo, nel raccontare le varie forme del soffrire, ma anche il riscatto del curarsi e del curare.
PERCHÉ INNAMORARSI DI AL LARGO
Come fossero frammenti di un discorso amoroso, Anna Marziano scompone e ricompone nella densità della pellicola immagini e parole sulla sofferenza e sulla cura, sulla malattia e sulla solidarietà. Lo spettatore è continuamente spiazzato dalla discrepanza tra montaggio visivo e montaggio sonoro, sui salti di suggestione tra il corpo e la terra, dalla discontinuità interna tra interviste a un pittore e a una scienziata, sull’onda che si muove tra la dimensione domestica e quella dell’ambulatorio pubblico. Si tratta di una sfida creativa, mentale e sensoriale, per cui ognuno saprà – se vorrà – ricostruire i tragitti del proprio pensiero sull’onda delle immagini, oppure abbandonarsi al flusso di un racconto visivamente affascinante.
INTERVISTA: ANNA MARZIANO RACCONTA
ANTONIO MAIORINO: Al largo comincia con immagini indistinte, un’ombra fluida che diventa acquatica. Definirei questo inizio quasi “amniotico”, una genesi con una concentrazione di significato che addensa valori che ritroveremo nel corso dello sviluppo narrativo. In che modo volevi che questo inizio generasse il racconto successivo?
ANNA MARZIANO: è un’immagine molto bella. Sono molto affezionata all’idea di densità ed è proprio la pellicola che permette di lavorare con la densità in opposizione al digitale, che è molto più legato al concetto di fluidità. L’idea è quella di volersi collegare sin da subito al fondo dell’esistenza, rappresentato dall’acqua, da questo mare da cui veniamo e a cui in qualche modo si torna. Si tratta di un’immagine che esprime allo stesso tempo il rischio di essere vivi e ma anche il prendersi cura degli altri. Anche nel neonato coesistono entrambe gli aspetti: il rischio di venire al mondo, la cura che lo accompagna.
Il tuo film è chiaramente contraddistinto da una profonda e colta struttura del pensiero, ma anche i massimi sistemi possono nascere da piccoli (grandi) eventi biografici. In che modo si combinano approfondimenti filosofici e spunti personali all’interno di questo film?
Mi sono trovata in una situazione comune a tanti, per cui avevo una bambina molto piccola e allo stesso tempo una persona molto cara e vicina con una diagnosi grave. Ho sentito chiaramente con forza la violenza della vita, sia nella sua creazione che nella sua distruzione; sia nella violenza del parto, che del gesto chirurgico, del post-operatorio, della malattia stessa. Ho avvertito la fragilità del corpo, come esso in qualche modo ci sfugga. Dopo l’urgenza medica, ho riflettuto sulla metamorfosi dell’identità della persona malata, ossia sulla trasformazione che subisce quando metabolizza l’evento della malattia; in più, mi sono chiesta in che modo la filosofia, il cinema e l’arte possano elaborare l’evento. Inizialmente, quindi, a dispetto di tutto quanto avessi appreso a livello culturale e artistico, mi sono trovata disarmata rispetto all’urgenza medica. Solo nel post-operatorio, nel tempo che supera l’urgenza, ho potuto con calma trovare uno spazio creativo. In questo lavorio di riflessione, mi sono soprattutto volta a fare i conti col pensiero di Nietzsche, che in generale mi aveva sempre nutrito, ma che in quello specifico frangente mi aveva deluso perché faceva appello unicamente alla forza. La Gaia scienza di Nietzsche, ad esempio, è stata scritta dopo una malattia, ma nel libro questo aspetto non viene minimamente approfondito. Mi è sembrato un gesto virile, forse proprio dell’epoca: mancava, cioè, l’espressione del dolore, che invece è necessaria per esprimersi con autenticità. In Nietzsche, d’altro canto, manca la riflessione sulla solidarietà; eppure, senza essere moralisti o altruisti, un egoista illuminato dovrebbe rendersi conto del fatto che la solidarietà fa bene a sé stessi, alla propria specie, al proprio pianeta. Mi piaceva, allora, espandere il pensiero di Nietzsche oltre i limiti che ne ho scoperto alla luce delle mie circostanze personali. Gli era mancata la capacità di cogliere l’ampiezza del soggetto, la sua porosità.
Ci sono documentari che, per raccontare la realtà che hanno eletto, prevedono una profonda immersione da parte del regista in un ambiente chiuso: ci si crea un recinto e lo si esplora. Il tuo documentario, invece, è aperto: traccia piste, indica traiettorie, apre sentieri. Se fosse un corpo, sarebbe il “corpo senza organi” di cui parlava Deleuze, ossia un campo di forze, piuttosto che un campo chiuso. Lo definiresti, in effetti, un esempio di cinema aperto?
È un cinema senza categoria, che spero semplicemente sia fedele al vivere. In altre parole, spero che sia un tutt’uno organico: vivere e fare film. Devo dire che anche per questo mi sono esposta più di altre volte; in altri film, non ho nemmeno usato la mia voce, ma questa volta l’ho fatto perché ho trovato che fosse necessario. Ci sono film, come dicevi, che si chiudono in un ambiente – vedi Wiseman - e restano immersi per far immergere a propria volta lo spettatore. Nonostante questo cinema mi piaccia molto, a me interessa lavorare con la forma caleidoscopica dei vari frammenti perché sono colpita nell’esistenza da questa molteplicità di percezioni che ricevo, dalla pluralità d’impressioni, di forze, d’intensità, d’incontri di persone, di punti di vista totalmente differenti. C’è quindi un brulicare di diversità nel film, ma anche un’organicità di fondo.
Questo non vuol dire, però, che sia un cinema rinunciatario. Nel caleidoscopio di visioni, ci sono alcuni aspetti ben messi a fuoco. Tra questi, un parallelismo tra il corpo e la terra.
Cerco di lavorare sempre sul corpo filmato come la terra e sulla terra filmata come. Così, per esempio, nel mio cortometraggio del 2011 La mutevolezza di tutte le cose. Organico e inorganico non sono poi così chiaramente distinti, c’è sempre una trasformazione ed è questione di prospettive temporali, per cui c’è una continuità che cerco di rendere visibile con le immagini. Che tu, poi, sottolinei che non sia un cinema rinunciatario, è importante e ci tengo a sottolinearlo. Provo sempre, effettivamente, a contribuire a un pezzo di pensiero e di cinema. Nel film questo aspetto emerge con la grossa cesura del nero centrale, da cui prende avvio una seconda parte più nettamente politica, con le conseguenze del prendersi cura, i temi del rapporto coi migranti e della sanità pubblica, l’intervento di una biologa sulla questione ambientale. Il pensiero deve diventare trasformazione dell’ambiente circostante. Quanto all’utilizzo della pellicola, non è nostalgico: è come scegliere di andare in bicicletta anziché in macchina.
Un’occhiata ai titoli di coda rende conto della diversità delle fonti a cui attinto: dipinti, saggi filosofici, ricerche mediche, collages, interviste private. I salti dalle une alle altre sembrano quasi delle “discontinuità enigmatiche”, per dirla ancora una volta alla Foucault. Può essere spaesante?
È una questione di lealtà verso la complessità delle cose. Io stessa troverei difficile di accettare di partecipare a un film se mi mettessero una camera davanti e tentassero di dare un ritratto di me come persona. A mia volta, quando coinvolgo persone nel mio lavoro, cerco di offrir loro degli spazi bianchi per la libera espressione, non posso pretendere di avere una rappresentazione di una persona né di una realtà.
Ma tutto questo come si traduce in Al largo a livello audio-visivo, filmico, di mestiere – nel senso nobile del termine? Si nota una discontinuità anche a livello tecnico tra audio e video, una strategia della discrasia. Per intenderci, allora: il montaggio fa cosa? Il suono fa cosa?
A me interessa molto lavorare nella discrepanza tra suono e immagini. Lavoro con una cinepresa Bolex non insonorizzata, per cui mentre riprendo si sente forte il rumore della camera che gira. Cerco di dissociare il momento dell’ascolto e delle riprese, sia perché lavoro da sola e non riuscirei a fare le due cose contemporaneamente, quindi primariamente per una mia necessità; ma anche per il pubblico, per far sì che suono e immagini non siano tautologici, e si crei uno spazio di movimento tra le due in cui il pubblico possa fare la propria scrittura.
Tra le parti sperimentali del tuo film c’è anche un montaggio accelerato sulle onde del mare. Proprio a Torino, dove il tuo film è stato premiato, due anni fa c’era un mediometraggio dal titolo Time and tide di Marleen van der Werf, senza personaggi, interamente ambientato nella natura, che si prefiggeva tra le altre cose di rappresentare il tempo nella natura in fieri. C’è una manipolazione del tempo anche nel tuo documentario?
L’accelerato nel mare mi sembrava che riuscisse nell’ambito dell’esperienza sensibile a poter esprimere questa violenza. L’ho associato a mia figlia che fa l’esplosione con la voce di un temporale o di un tuono, questo mare accelerato. Per me era legato alle varie fasi del mare, come nel film ci sono dei gorghi, c’è un mare più calmo, il mare in tempesta, la velocità dell’accadere improvviso di certe cose nella vita. Non è effettivamente nato da una riflessione cinematografica in senso più concettuale quanto da qualcosa di sensibile e sensoriale.
In una precedente intervista hai citato Paul Ricoeur: “la malattia rivela che la nostra esistenza è naturalmente scucita”. Nel film questo è evidente nelle scene in cui tua figlia gioca a ricomporre un corpo umano a mo’ di collage degli organi. Per usare l’espressione che ha dato il titolo a un libro e a un film: come si fa “riparare i viventi”, al di là della dimensione puramente clinica degli organi, delle ferite, delle lesioni?
Rispetto al film ci sono due livelli: una persona che cerca di superare la catastrofe della malattia e la dimensione plurale e politica del riparare la società, il pianeta. A livello individuale penso che ci tocchi fare un lavoro di patchwork per cui si tesse, s’irrobustisce, s’imbastisce, con tutti i pezzi di reale che ci vengono incontro e con i quali dobbiamo imparare ad avere a che fare per evitare fanatismi di ogni genere. Questa accoglienza del mutamento, che previene dal rinchiudersi in un’idea identitaria monolitica, ci consente di creare una grande coperta con le nostre pieghe esistenziali, accettando la molteplicità del reale. Dal punto di vista plurale, invece, per me è centrale l’aspetto di cui ti dicevo prima: la solidarietà. Essa si riporta sia a livello di organizzazione del sistema, nel senso della coesione tra le varie parti sociali, sia a livello di rapporto col pianeta. Anche il nuovo film su cui sto lavorando adesso è centrato su questo: la necessità del prendersi cura. Bisogna andare al di là della vecchia contrapposizione tra giustizia sociale e giustizia ecologica. Nella pandemia ciò è evidente, perché si è reso chiaro che non andiamo lontano se sfruttiamo a oltranza l’ambiente e le sue risorse naturali oltre ogni sostenibilità. Dobbiamo quindi imparare a porci dei limiti e capire che non ci si può salvare da soli. Ci sono fasce di popolazione che lavorano nella filiera agricola e che sono in prima linea in questa situazione.
Veniamo alla vecchia questione della presenza del regista all’interno del documentario. C’è chi parteggia per un’esposizione più forte, chi per l’invisibilità. In qualche modo, avevi già rotto la barriera della macchina da presa in opere precedenti, ma con discrezione: mostrando il microfono in Al di là dell’uno, facendoti chiamare per nome in Orizzonti, orizzonti. Sono fessure che rendono lo spazio filmico aperto, permeabile. E in Al largo?
È una questione che in effetti mi attanaglia. Mi ricordo quando ho cercato finanziamenti per Al di là dell’uno in sede di Commissione a Parigi. Il Presidente della Commissione all’epoca non era convinto del film perché mancava la mia presenza. Sosteneva che senza la mia presenza mancava un filo conduttore. Io mi sono comunque opposta e fortunatamente alla fine sono comunque riuscita ad ottenere il finanziamento. La mia presenza, questa volta, è più ampia e spero che questo aiuti le persone a posizionarsi ed a sentire il documentario sulla propria pelle. C’è ad esempio il gesto di cantare la ninna nanna a mia figlia, che ritengo sia molto vicino ad un gesto artistico: soprattutto lì mi sono esposta. Mi dà però fastidio, devo dire, quando la presenza diventa troppo forte.
C’è una cosa che ho evitato di dire per evitare le classiche etichette, ma è evidente che il tuo film sarebbe facilmente definibile “postmoderno” per la sua poetica del frammento, per il modo in cui abbraccia la complessità ed evita di sentenziare verità assolute. In un saggio che s’intitola La cura di sé, Michel Foucault spiega che la conoscenza di sé è una sorta di strumento complementare dell’arte medica, perché persegue anch’essa il fine della guarigione, aggiungendo il lato spirituale a quello fisico. Ebbene, ritieni che paradossalmente, dopo tutto quello che ci siamo detti sulla complessità del tuo film e sul fatto che non voglia dettare verità assolute, alla fine Al largo possa contribuire “alla cura di sé”, cioè a far capire qualcosa in più alle persone sulla sofferenza, sulla solidarietà, sulla cura?
Sono grata ad altri libri e film, quindi a mia volta me lo auguro per gli altri, che il mio film possa creare qualche cosa in grado di attivare lo spettatore ad una riflessione propria, ad un percorso personale. Si tratta di un’espansione della gratitudine che porto verso libri letti e film visti e ricevuti. Quanto al fatto che il film sia postmoderno, non sono molto vicina alle categorie, ma spero che in un certo senso si cerchi di superare anche la stessa ottica postmoderna, nel senso che in questo film cerco un oltrepassamento costruttivo, per quanto non esista la visione di una verità univoca e centrale. C’è qualcosa, in particolare, del pensiero di Ernst Bloch e Donna Haraway: del primo, la capacità d’imparare a sperare; della seconda, il saper affabulare comunicando idee di buonsenso rispetto alla sostenibilità del pianeta e della società. Direi che m’interessa che il film sia seminale in questo senso.
Domanda bonus, di chiusura; la sto facendo ad ogni regista che intervisto, sia di documentari che di fiction, a mo’ d’inchiesta. La definizione di cinema del reale ha assorbito la distinzione tra documentario e finzione. Si può dire che il tuo film rappresenti perfettamente questo concetto, riassumendo tutto nell’artisticità del gesto, senza che conti la distinzione tra il documentato e il creato?
Sono completamente d’accordo. Non saprei riformularlo meglio.
SCHEDA TECNICA DEL FILM
ANNO: 2020
PAESE: Italia
GENERE: documentario
ATTORI: Francesco Nash, Claire Marin, Dijana Zoradana, Antonietta Lanzarone, Sindia Sosdian, Carrie Lear, Alea Lori Marziano.
MONTAGGIO: Anna Marziano
SUONO: Jochen Jezussek
COLORE: Armin Dierolf
POST-PRODUZIONE: Planemo, Berlin
DURATA: 61 minuti
(Immagini: fotogrammi dal film Al largo di Anna Marziano. Fonte: annamarziano.com)
Antonio Maiorino