Editoriale

Genocidio Armeno, cent'anni di improntitudine

 ISTANBUL, 24 APRILE 2014 – Ci son voluti ben 99 anni, prima che arrivasse, quanto meno, una parola di cordoglio. Un riconoscimento delle sofferenze di un popolo, che si incanalano finalmente in un contesto più ampio di condivisione storica: Turchia e Armenia per la prima volta tessono le trame di un dialogo, e condividono un'empatia sulla tragicità degli eventi durante la Prima Guerra Mondiale, quando prima della dissoluzione, l'impero ottomano intraprese una feroce campagna militare contro gli armeni, uccisioni di massa e deportazioni, che si sono nascoste dietro i numeri e la semantica, con il popolo armeno – poi imbottigliato nel loro spazio attuale – a gridare giustizia per l'oltre un milione e mezzo di morti, e la Turchia, da Ataturk in poi, che di genocidio proprio non ne ha mai voluto parlare.

Frizioni ingigantitesi nel tempo, pronte a deviare ogni accenno di verità, con la Turchia sempre pronta a minimizzare, a parlare di “contesto di guerra”, dove gli ottomani semplicemente “hanno ucciso di più”, o a puntare il dito contro qualcun altro, un capro espiatorio che quantomeno gli fornisse una forma di giustifica. Tra le tante, le azioni militari dei francesi, che volevano provare a sfruttare il “fattore armeno” per fronteggiare gli ottomani, con i turchi in grado di anticiparne le mosse e scagliarsi in anticipo sulle comunità armene dell'est dell'Anatolia. La stessa Francia, che ha un legame indissolubile con l'Armenia, che ne accoglie una grossa comunità, e che qualche anno fa pare si divertisse a buttare benzina sul fuoco, con una legge che puniva chi negasse il genocidio armeno in Francia, legge che portò masse di turchi inferociti a urlare contro le ambasciate francesi di tutta l'Anatolia.

E un'Armenia, oggi ridimensionata, annichilita, che ha perso territori e ricchezze, che ha dovuto rimboccarsi le maniche e ricominciare. A Yerevan c'è una collina che domina la città, la Cascata, una maestosa scalinata in pietra intervallata da aiuole fiorite e sculture di arte moderna, sulla cui sommità un blocco di marmo sigla la rassegnazione di tutto un popolo, e “l'avvio di una nuova era di progresso e di resurrezione culturale”, malinconicamente stagliato di fronte all'Ararat, simbolo indiscusso dell'Armenia, che sta a Yerevan come il Vesuvio sta a Napoli, ma da cent'anni strappato, e circoscritto nei confini territoriali turchi. Dall'altra parte della città, il Tsitsernakaberd, il museo del genocidio armeno, raccoglie le testimonianze dell'epoca, le foto e le gigantografie dei deportati in condizioni pseudo-olocaustiche, e i documenti e i rapporti ufficiali delle varie ambasciate che avvisavano i propri paesi degli scempi in corso in Turchia, dell'imminente minaccia che l'impero ottomano stava per rappresentare nei confronti della minoranza armena. Il silente corridoio che ospita la mostra, nel sottosuolo, tetro e soffuso, si curva leggermente a celare la fine delle macabre visioni, così come la pira perennemente accesa, in superficie, e la voce di un soprano drammatico che ti traghetta negli inferi del museo, sembra tutto strutturato per spremervi una spugna posta appena dietro l'iride, rastrellarvi le corde della commozione, per seppellirle infine in una fossa comune di uno dei due ventricoli, pronto a pomparle con fremito e vigore in ogni angolo del corpo.

Nella stessa area, sparsi qua e là vi sono filari di alberi piantati da leader stranieri che hanno riconosciuto il genocidio – tra cui anche esponenti del governo italiano, nonostante le minacce di ritorsione da parte del governo turco.

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E oggi, invece, una svolta, epocale: «In verità, i turchi e gli armeni, condividendo una stessa storia, dovrebbero raggiungere una memoria giusta, attraverso il dialogo e l'empatia, dei tragici eventi del 1915, verificatisi durante le grandi sofferenze umane della Prima Guerra Mondiale, già meticolosamente analizzata in tutti i suoi aspetti. In questo contesto, la nostra proposta di istituire una Commissione Storica congiunta, come si evince dai protocolli turco-armeni, resta all'ordine del giorno». Sono le parole del ministro degli esteri turco riguardo la recente risoluzione del comitato delle relazioni estere degli Stati Uniti sul genocidio armeno. “Una memoria giusta” e una “commissione storica congiunta” sono gli apici, a tratti speranzosi, di cent'anni di improntitudine. La memoria giusta sembra in realtà essere un eufemismo, che bilancerebbe le uccisioni dei musulmani da parte degli armeni, come conseguenza delle decimazioni, mentre la commissione congiunta sembrerebbe equiparare i due dolori.

Già nel 2009 era nata la volontà di superare la secolare inimicizia impostata sulla negazione del genocidio. Volontà poi caduta nel vuoto, a causa di questioni legate agli attriti che l'Armenia continua ad avere con l'altro acerrimo vicino, l'Azerbaijan, per motivi di territorio e confini. Azerbaijan che da sempre gode di una protezione, sotto l'ala di Ankara. Il fattore azero, specie per la risoluzione della regione del Karabakh, lascia allo stallo le trattative turco-armene.

Nonostante gli sforzi delle lobby negazioniste, la Turchia ha comunque, da sempre, perso la battaglia della verità, in qualche modo. La distruzione della popolazione armena e l'enorme perdita territoriale resta un fatto dal quale non si può eludere, qualunque sia la proprietà semantica che gli si vuole affibbiare. Il 24 aprile 1915 fu il giorno nero, quando si decise di cancellare gli armeni dall'Anatolia. I Giovani Turchi progettavano di rimpiazzare le comunità cristiane, nonostante la loro ancestrale presenza in quelle terre, per omogeneizzare il popolo musulmano che sarebbe andato a costituire quella repubblica turca ancora tutta da fare. Secondo il rapporto del 1919 stilato dal governo ottomano, il numero di cittadini armeni che hanno perso la vita si aggira intorno alle 800,000 persone. Nei dati non sono riportati però i deportati nel deserto iraniano, morti per i massacri, la fame e le malattie, che farebbe salire il numero a oltre un milione.

Il negazionismo imperante in Turchia cavalca da anni l'intenzione di distorcere gli eventi e le conseguenze della questione, specie nelle nuove generazioni. Ne è un esempio il fatto che in Turchia sono stati pubblicati appena 20 volumi sul genocidio, mentre all'estero il numero raggiunge una cifra superiore ai 26,000. Rimane l'incessante lavoro di volontari turchi, che da anni tentano di riportare alla luce la questione e sensibilizzare l'opinione pubblica.

La Turchia sembra si prepari a fare i conti con il proprio passato, ma i blocchi da aggirare, specie sotto il profilo politico, sembrano, comunque, ancora insormontabili.

Dino Buonaiuto (corrispondente dalla Turchia)