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SPECIALE OSCAR 2013 - "Frankenweenie" di Tim Burton, resurrezioni a metà
Un genio della scienza, solitario e nostalgico, e la sua creatura: la sinossi all’osso di Frankenweenie (crasi tra Frankenstein e “weenie”, ossia “sfigato”), ma a ben vedere, alla lontana, anche la storia del giovane Burton. Che, 26 anni e creatività da vendere, realizzava nel 1986 il cortometraggio da cui è tratto il film: l’idea era di farlo in stop motion, ma mancava la grana, e venne girato dal vivo. E Burton venne considerato un piantagrane, perché la Disney, nonostante la candidatura del corto agli Oscar, lo sospese, affibbiò al film l’obbligo di accompagnamento degli adulti ai minori e gli appioppò la distribuzione combinata, in Gran Bretagna, col meno interessante Baby – Il segreto della leggenda perduta. 2012: come il protagonista del suo film, Tim Burton ricuce la sua stramorta creatura e la riporta in vita, rigorosamente in stop motion, rigorosamente candidata agli Oscar: c’è l’happy end? Tutto sommato sì, ma puzza un po’ di cimitero delle idee.[MORE]
Triplo salto “mortale”: anche noi “rianimiamo”. La sinossi, s’intende. Il piccolo Victor Frankestein è inseparabile dal cagnolino Sparky, per quanto la madre lo voglia più socievole ed il padre più baseballaro e meno nerd. Ma il fuori campo di Victor – gran colpo – durante una partita di baseball a cui è stato portato, abbastanza di peso, dal padre, è un autogol, per quest’ultimo: Sparky insegue la palla e viene investito, Victor dismette i guantoni ed intraprendete in soffitta degli esperimenti degni di cotanto cognome. La montagna partorisce un cagnolino: e pasticci a non finire, per colpa di una bislacca gang locale di studentelli che ambiscono a vincere il concorso di scienze.
Quello di Tim Burton è un esperimento col cuore, come quello del piccolo Victor: non è cinematografia innovativa o sperimentale, nemmeno nell’ambito dello stesso alveo burtoniano; è, piuttosto, l’ennesima resurrezione fantasiosa, un racconto ammiccante, impeccabile nella tecnica da laboratorio hollywoodiano ed affettuoso tanto negli occhi di chi l’ha (ri)realizzato quanto in quelli di chi lo guarda. Nel mondo della fantasia, l’elaborazione del lutto è un tema troppo scabroso: l’immaginazione elude ogni psicodramma e la tenacia di Victor nel non voler rinunciare al proprio cagnolino diventa, piuttosto, una storia sull’amicizia, sul sentimento che rinsangua la scienza dei saccenti ambiziosi, sul valore nascosto e sempre vincente di chi è invece emarginato. Sia nell’esecuzione che nei temi, dunque, ci sono cuore e cervello, il buon vecchio Tim e l’inappuntabile Mr. Burton.
Sembrerà uno sterile escamotage di scrittura, eppure, le similitudini tra Burton ed il suo Victor non finiscono. Perché, se in fin dei conti – come in fin di film – le magagne sono risolte e l’esperimento funziona, si ha la sensazione che il regista, come il proprio protagonista, finisca un po’ per dissotterrare, tra cimitero e cimelio da soffitta, quel garbuglio – beninteso, vitale – di idee, stilemi e scaltrezze di produzione che così geniali non sono (più). Fin troppo facile crogiolarsi nel citazionismo del Frankenstein in bianco e nero, con l’assedio al mulino infuocato, o compiacersi del ludico riciclaggio dei nomi (la nipote del sindaco, un po’ Mortisia, si chiama Elsa Van Helsing); o ancora, bearsi solo perché lo scienziato pazzo di turno, il professor Rzykruski, assomiglia vagamente a Vincent Price – ché, dopo il magnifico Carl\Spencer Tracy di Up di Pete Docter, il giochetto dei personaggi animati con volti di attori in carne ed ossa non impressiona.
Andrebbe piuttosto ammessa una possibile e scomoda verità, anziché chiudere gli occhi come di fronte alla scomparsa di un cagnolino a cui teniamo tanto: Frankenweenie è un film carino, ma dare del “carino” a Tim Burton vuol dire ammazzarlo. Tanto più se si valuta la superiorità evidente di un film d’animazione come ParaNorman del "burtoniano" Chris Butler. Rivale agli Oscar di Frankenweenie, il film di Butler è peraltro centrato su temi simili: ma più divertente, più illuminato, meno frettoloso – lo scioglimento di Burton è ancora da cortometraggio – e soprattutto più audace nello scavare nella profondità del proprio senso ultimo. Per fortuna, qualche collega d’oltreoceano, meno facile agli entusiasmi rispetto agli omologhi italiani, se n’è accorto.
Sparare a zero su Tim Burton potrà pur essere diventata una moda critica – per quanto il coro d'assensi levatosi su Frankeweenie sembri dimostrare, semmai, il contrario. Non meno, però, lo è ergersi a paladini del vecchio genio e disseppellire i propri amori cinematografici. Non è che una recensione tiepida su Frankenweenie sia un de profundis: Tim è bravo, è ancora bravo. Frankenweenie, però, è mezzo riciclato: e c’è di meglio, e meno naftalinico, sia nell’animazione contemporanea che nella bottega degli orrori di Burton.
Titolo originale: Id.
Interpreti (voci originali): Catherine O'Hara, Martin Short, Martin Landau, Winona Ryder, Robert Capron
Origine: USA, 2012
Distribuzione: Walt Disney Pictures
Durata: 87'
(in foto: immagine promozionale del film)
Antonio Maiorino