Estero
Fortress Usa. Il viaggio delle migranti tra Guatemala e Stati Uniti
NEI PRESSI DI CONTEPEC (STATO DI MICHOACÀN MESSICO), 24 SETTEMBRE 2012 - Pur essendo uno dei più famosi, l'albergue di padre Solalinde – minacciato di morte per la sua opera di sensibilizzazione sui diritti dei migranti – il posto non è esattamente dei più comodi. Refettorio e cucina sono infatti all'aperto e le donne sono costrette a dormire sotto un tetto di paglia appoggiato su pareti di plastica, non essendo ancora concluso il padiglione loro destinato.
I treni, spesso, portano centinaia di migranti alla volta, ed i pochi letti a castello – una ventina in tutto – non riescono a dare ristoro a tutte e tutti. Materassi, cartoni e coperte diventano, all'occorrenza, letti più che soddisfacenti.
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Padre Solalinde accoglie tutti, senza tener conto degli spazi materiali dell'albergue. L'idea di base, comunque, sarebbe quella di non ospitare i migranti per più di tre giorni, perché questi luoghi sono stati ideati solo come sostegno durante il viaggio. A nessuno viene in mente l'idea di tentare di far cambiare idea ai viaggiatori, nonostante i tanti coyotes - o polleros, cioè coloro che aiutano i migranti ad oltrepassare il confine e che, spesso, sono in combutta con cartelli o gruppi di aggressori che si aggirano lungo tutto il tragitto della “bestia”.[MORE]
«Da quando, negli ultimi anni, i cartelli malavitosi hanno incrociato la loro strada con i flussi migratori è sempre più drammatica la violenza contro uomini e donne che decidono di attraversare il Messico per raggiungere gli Stati Uniti. I messicani devono reagire» - dice padre Solalinde, che ad agosto è stato costretto a fare i conti anche con gli alti vertici ecclesiali, che gli avevano gentilmente consigliato per voce del vescovo e pastore della diocesi di Tehuantepec, Óscar Armando Campos Contreras di dedicarsi ad una parrocchia e non ai migranti. «Non mi sembra evangelico. Mi è stato detto che il mio tempo libero lo dovevo dedicare ai poveri, ma ai poveri non dobbiamo dare gli avanzi. Perciò non accetto di prendere una parrocchia. Io posso lottare contro i cartelli ma non contro la Chiesa», ha risposto.
Medias Aguas, Tierra Blanca e poi su, fino a Lechería, a pochi chilometri da Città del Messico ed a 1800 dalla meta finale. Questo è probabilmente il tratto più lungo da fare, perché il tempo è scandito dal passaggio dei treni merci, e qualunque attività è buona per ingannare il tempo. Se si è fortunati si può prendere un treno dopo pochi minuti, se lo si è meno si può aspettare in questo non-luogo (per dirla ancora con Augé) anche due giorni. Unico sostegno le volontarie ed i volontari delle organizzazioni che distribuiscono cibo ed acqua come Beta o il collettivo La Patrona.
Arrivati qui, quando il viaggio non è neanche a metà, il peggio può dirsi scampato. Gli stati più pericolosi sono ormai alle spalle e la preoccupazione principale dei migranti – oltre a quella di trovare cibo e ristoro in qualche albergue – è trovare un paio di scarpe con le quali continuare il viaggio o riparare quelle, ormai sfondate, con le quali si è partiti.
Una volta pronti a partire, dopo aver curato i piedi feriti, le tendiniti o i dolori alle ginocchia divenuti anch'essi viaggiatori lungo il tragitto, le strade si dividono.
Da Tijuana a Matamoros, passando per Piedras Negras o il rio Bravo, le cui esondazioni dirottano i tentativi di passaggio verso la tristemente nota Ciudad Juárez: molti sono i punti attraverso i quali tentare di fare il salto finale, quello che porta negli Stati Uniti.
Rimane solo l'ultimo ostacolo. A questo punto le strade che si aprono sono due: procurarsi documenti falsi (8.000 dollari) e tentare di passare attraverso le dogane, con il rischio di aggiungere anche l'accusa di falsificazione di documenti oltre a quella di immigrazione clandestina (che porta al rimpatrio se al primo tentativo o ad una pena dai 5 ai 7 mesi se recidivi) oppure tentare di scavalcare il Muro. Secondo le organizzazioni a tutela dei migranti, dal 1994 – anno dell'operazione Guardiano – sono quasi 5.000 i migranti morti nel tentativo di attraversare. Tutti sono stati classificati come “migranti morti sconosciuti”. Desaparecidos, insomma.
Fortezza USA: più che una frontiera, una zona di guerra. 3.100 chilometri divisi in nove settori sorvegliati da satelliti, droni, torri mobili, telecamere a raggi infrarossi e più di duemila tra agenti della Border Patrol, Guardia Nazionale e volontari. Sulle loro teste, ogni venerdì pomeriggio alle 17, volano gli aerei che da El Paso rimpatriano i migranti messicani – circa 6.000 al mese – che hanno tentato di valicare la frontiera.
Uno spiegamento di forze che però sembra essere attento solo quando c'è da dare la caccia – letteralmente – ai migranti. Da quegli stessi posti, infatti, passano tranquillamente droga (dal Messico agli Stati Uniti), armi (dagli Stati Uniti al Messico, come ha portato alla luce l'operazione “Fast and Furious”) e narcodollari, da ambo i lati.
Lasciati dietro la frontiera i problemi, le paure, le ansie del viaggio, negli Stati Uniti i migranti trovano in molti casi la disillusione – che è spesso una costante nei viaggi verso “il futuro migliore” - del rendersi conto che la vita “dorata” sognata lungo i 3.000 chilometri precedenti non è poi così dorata, così come il pericolo di essere non-identificati come latinos e indocumentados ed essere rinchiusi in centri di identificazione come quello di Houston o rimpatriati è dietro l'angolo.
[parte 3 di 3]
[parte 2 di 3: Del corpo migrante si fa lotteria. Il viaggio delle migranti tra Guatemala e Stati Uniti]
[parte 1 di 3: Salita agli inferi. Il viaggio delle migranti tra Guatemala e Stati Uniti]
(foto: lamericalatina.net)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]