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Filmesque, intervista a Walton Zed: "Così ho disegnato l'incontro steampunk tra Totò e Fellini"
Metti Totò e Fellini in un mondo steampunk: è quello che fa il cortometraggio animato Filmesque di Vincenzo De Sio e Walton Zed, immaginando due tra i più grandi protagonisti del cinema italiano in un confronto possibile, laddove, nella realtà storica, le rotte artistiche s’erano solo sfiorate. Da Cannes a La Città Incantata Film Festival di Nocera Inferiore è poi partito il viaggio del cortometraggio nel circuito dei festival di tutto il mondo, con stazioni in programma quali l’Ex Art Film Festival di Pavia, i Prisma Independent Film Awards di Roma, il Gozo Film Festival di Malta e già il profumo d’oltreoceano che si leva con l’Independent Shorts Awards di Los Angeles, apripista ai primi approcci al circuito americano.
Ne abbiamo parlato con Walton Zed, al secolo Davide Capasso, multiforme artista e co-autore del film.
ANTONIO MAIORINO: ogni storia ha un inizio, anche visivo. Sulla base della suggestione di questo incontro immaginario tra Totò e Fellini, qual è stata la prima immagine da cui è scaturito l’universo visivo del corto?
WALTON ZED: naturalmente devo precisare che parte tutto dalla suggestione fornitami da Vincenzo De Sio. Mio compito è stato quello di tradurla in immagine. Dallo scambio di idee con Vincenzo è partito tutto. Il suo input era già abbastanza preciso: aveva immaginato lo steampunk e l’incontro tra Totò e Fellini. Nel momento, però, in cui amo ciò che mi viene proposto, ecco che comincio a visualizzare dei colori: ho pensato a nebbia, nuvole, cielo, e da lì sono partito per immaginare un luogo senza tempo. La sua visione è diventata immagine nella mia mente: ho pensato ad i colori del deserto, i gialli ed i beige che mutavano in nebbia e sabbia e davano forma al tendone da circo steampunk. Il mio contributo è stato quello di realizzare in immagini la storia di Vincenzo: ho reso vivo il suo mondo, l’ho tradotto in immagini per tutti quelli che lo vedranno.
Proviamo a tracciare meridiani e paralleli di questo mondo: lo spazio ed il tempo.
C’è uno spazio, per quanto non definito, ma non c’è un tempo. Si perde quasi la percezione del tempo trascorso: possono passare secoli o solo tre minuti… La visione onirica era quella di un non-luogo, che non si aggrappa a costruzioni, se non al tendone da cui Totò esce per andare incontro a Fellini. Il luogo è intrappolato in uno spazio tempo che non esiste e per comunicare questo mi sono affidato all’idea del meccanismo di un orologio: In effetti si potrebbe dire che quegli ingranaggi che girano lasciano la percezione ad un’interpretazione personale.[MORE]
Con due personaggi del carisma di Totò e Fellini, si potrebbe pensare che sia la loro presenza a convogliare tutta l’attenzione. Eppure l’ambiente è decisivo: come ti sei figurato gli elementi che lo popolano?
Me li sono figurati sempre grazie a Vincenzo De Sio: io ho delineato per immagini una mappa di parole. Lo script della storia già aveva tutto: la tecnologia vittoriana, il tendone da circo, il fumo avevano bisogno di una traduzione visiva ed è quello a cui ho provveduto attraverso il mio contributo artistico, che si è potuto dispiegare in questo modo grazie alla chiarezza della visione contenuta nel soggetto.
Disegno, palette, luci: a livello strettamente tecnico, quali scelte hanno improntato la definizione del contesto visivo di Filmesque?
Ecco, qui il mio contributo è ben preciso. Sono andato alla ricerca di una modalità old school, di una pasta artigianale che emerge quando si disegna frame by frame. Ogni tavola viene disegnata a mano, per quanto questa tecnica oggi sia affossata dai software. Preferisco questo modus operandi in cui spicchi una singola mano, di cui si chiara l’intenzione artistica, piuttosto che la fluidità moderna, con le agevolazioni tecnologiche che portano ad un lavoro di squadra. In questo modo la visione è più coerente e personale, il tratto ruvido, forse rozzo, ma capace di esprimere una profonda emozionalità. L’espediente del software serve per montare, ma la matrice è quella di un pittore, non di un grafico o di un tecnico. A differenza di tanta animazione di oggi, l’effetto deve essere di un dipinto in movimento.
A proposito dell’animazione oggi: lo sviluppo tecnologico è forse un “bacio della morte”, o la partnership tra manualità e digitalizzazione può funzionare coi dovuti equilibri?
Alcuni lavori moderni che si vedono in giro sono belli, d’effetto, colpiscono. Personalmente, da pittore, io cerco qualcosa di diverso. Il lavoro di squadra veicola l’emozione in porzioni divise tra i singoli membri dell’equipe artistica. È un’arma a doppio taglio: c’è più spettacolarità, certo, ma si perde genuinità e semplicità. L’utilizzo eccessivo del software è gravoso da questo punto di vista. Amo ad esempio i vecchi lavori della Disney disegnati a mano. Io reputo artistico ciò che viene visceralmente dall’artigiano. Le mie animazioni partono da tavole disegnate su cartoncino e penna, ultimate in digitale, ma a mano con la tavoletta. Manterrò sempre questo movimento perché la mia visione è da pittore. La scrittura di chi l’ha pensato, l’interpretazione del pittore: un dipinto vivo, senza intermediazioni.
Hai precisato l’apporto di Vincenzo De Sio e più peculiarmente il tuo ruolo. C’è però un’area che potremo definire “ibrida”: quella relativa al taglio delle immagini, che può appartenere tanto alla regia quanto all’animazione.
In questo caso ho avuto carta bianca. Le silhouette in bianco e nero, la successione delle scene, l’inquadratura delle scene deriva dalla mia libera interpretazione visiva dell’input. Non poteva che essere così: in caso contrario avrei avvertito un blocco creativo, avevo bisogno di poter liberare la mia velocità d’esecuzione senza imposizioni.
A questo punto dell’intervista, i tempi sono maturi per la classica domanda sulle regie in tandem: com’è stato lavorare con Vincenzo De Sio?
Come dicevo, Vincenzo offre la possibilità di essere libero: non c’è nessuna costrizione, l’intelligenza da parte sua è stata quella di affidarsi a me in quanto pittore, non come tecnico o grafico. Mi ha chiesto di trasformare in poesia ciò che aveva pensato. Ho potuto scegliere i colori, il tratto e tanto altro. È più squadra questa che tante altre: squadra è “capirsi”. Adattarsi è un delitto. Lui mi ha affidato parte della sua anima, con intelligenza ha sbrigliato la mia libertà d’espressione. Ho amato la sua idea perché lui avrebbe amato il mio modo di interpretarla. È così che funziona un sodalizio artistico.
Nella suggestività del cortometraggio rientra anche il fatto che sia muto. Se avessi la bacchetta magica, o la tavoletta magica, per aggiungere una battuta, cosa faresti dire a chi, tra Totò e Fellini? Oppure non rinunceresti mai al silenzio?
Non rinuncerei mai a questo silenzio. Quello sguardo tra di loro nel corto, beffardo ma anche tenero e complice, già è uno scambio di parole, anche più eloquente delle parole. Uno scambio di parole o battute sarebbe stato inutile in quel contesto. Loro comunicano continuamente nel corto: Fellini che riprende con la telecamera, Totò che si esprime liberamente, il gioco di sguardi del finale, che ovviamente non svelo… Ho amato tutto questo perché, come in tante cose che faccio, preferisco gli sguardi alle parole. In alcune animazioni che ho realizzato in passato ho addirittura eliminato le labbra, per lasciare solo gli occhi. Ma comunque il punto di partenza era geniale: Totò e Fellini in uno spazio steampunk! Già questo diceva tanto.
Walton Zed dopo Filmesque: a che punto del tuo percorso artistico siamo?
È quasi in distribuzione Escape from Planet Zero, con un bel cast: Davide Marotta, Cristina Donadio, Mariano Rigillo, Arturo Sepe e tanti altri, con produzione Alchemicarts. Si tratta di una storia ambientata nel 2099, un mix di pulp, spazio, post-apocalittico e non solo. Anche questo lavoro, comunque, sottolinea il valore dell’artigianato: mi chiudo in un bunker con le mie macchine, col mio computer, facendo le mie cose di postproduzione da pittore, pensando ai colori ed a mondi che vado a dipingere a mano. Si fondono animazione, green-screen, cinema ed altre arti col legante strutturale della pittura. L’ispirazione viene dai videogiochi anni ’90 tipo Mortal Kombat, i classici platform stile 16 bit di cui sono gran collezionista. Torniamo dunque al discorso della manualità: il punto di vista, ribadisco, è pittorico. Non sono un regista: affronto il tema cinematografico con l’umile occhio di un imbrattatele. Il mio approccio al cinema è quello che potrebbe avere un pittore, e segnatamente un bambino di 5 anni. Io ho cominciato a dipingere a 4 anni ed ho cercato sempre di mantenere quell’istinto, che d’altronde ho voluto infondere anche a Filmesque. In cantiere, poi, c’è anche Desmond, ma sarebbe prematuro parlarne. Già nel 2014 ci feci il Comicon a Napoli ed ebbe success, ora si stanno valutando diverse opzioni su come svilupparlo. Ciò che posso sottolineare, anche in questo caso, è che sono ad un punto della mia esperienza in cui voglio spingere all’estremo il discorso dell’artigianato, perché è quello che mi consente di conoscermi meglio.
(in copertina: dettaglio di frame di Filmesque; all'interno: due frame, il primo con Totò, il secondo con Fellini)
Antonio Maiorino