Estero
Fethullah Gulen, profilo di un nemico giurato
Per chi segue anche con sbiadita attenzione le vicende che nell’ultimo decennio attanagliano la vita sociale e politica di un paese come la Turchia, non avrà potuto fare a meno di imbattersi nel nome di Fethullah Gulen. Nello specifico, il nome è saltato fuori nel momento in cui il presidente Erdogan e il suo partito di matrice islamica AKP si sono sentiti particolarmente ‘minacciati’, indeboliti da proteste o dai più recenti ‘presunti golpe’, e di reazione il dito puntava in direzione di un unico capo espiatorio: l’acerrimo nemico Fethullah Gulen e il suo movimento. Aizzate le accuse, l’autorità del presidente si è sempre spinta, tra l’altro, verso conseguenti epurazioni di massa specie nei rami militari e giuridici, una sorta di vendetta cruenta e trasversale tesa ad eliminare i “nemici della patria”, a punire chi da anni tenta di “instaurare uno Stato nello Stato”, infiltrandosi proprio nelle istituzioni turche, in particolare nella polizia, nell’esercito, e in una nascente élite che pare sappia scatenare l’ira funesta – e le paranoie – del presidente. È successo negli ultimi anni in seguito allo scandalo intercettazioni del 2013, sta succedendo negli ultimi giorni in maniera particolarmente dilagante. Ma chi è in realtà Fethullah Gulen? E davvero ha il potere di spaventare il governo turco? O sta diventando soltanto il pretesto per l’AKP di agire indisturbato, eliminare oppositori e nemici, e incrementare ulteriormente il proprio potere in Turchia (nel sogno di Erdogan di creare una Repubblica presidenziale)? Il dibattito è tuttora acceso e particolarmente nebuloso in Turchia, figuriamoci in Occidente. Eppure lo stesso Gulen pare vanti una fortissima influenza proprio per la sua presenza in diversi paesi stranieri tra cui gli Stati Uniti, la Germania, l’Olanda e il Belgio, oltre ad una massiccia presenza nei Balcani e nei paesi post-sovietici dell’Asia Centrale – culturalmente e linguisticamente inseriti in un’area di influenza turca – con un impero economico da 25 miliardi di dollari, una rete di scuole private e potere mediatico invidiabili e un numero di simpatizzanti del movimento che nella sola Turchia rappresenta il più ampio gruppo di seguaci dell’Islam non organizzato a livello governativo. Di fronte a un movimento tanto ambiguo, è facile chiedersi: come è possibile giudicarne il suo carattere religioso senza che lo stesso si presenti pubblicamente come un attore religioso, ma è allo stesso tempo guidato da uno studioso dell’Islam? Cosa unisce un movimento che si professa come nient’altro che una rete di autorità educative indipendenti, corporazioni mediatiche e associazioni di settore, tutte motivate e indirizzate dai principi di Gulen?
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Il movimento di Fethullah Gulen: ideologia, influenze e critiche
Uno dei punti di forza del movimento di Gulen è il suo obiettivo – chiaramente dichiarato – di sviluppare una contro-élite moralmente conservatrice che possa sostituire la classe dirigente attuale della Repubblica turca, intrisa di secolarismo e orientata verso l’Europa. Le trasformazioni urbane degli ultimi decenni all’interno del paese, con le aree rurali svuotate e la nascita di megalopoli tese ad imitare le città europee, hanno generato stili di vita che per le classi conservatrici turche ha significato un graduale allontanamento dai principi kemalisti. Sezioni di società in continua espansione hanno cominciato a sentire la necessità di una riorganizzazione ‘morale’ della società, che eludesse i sistemi di interessi economici e raggiungesse perfino l’idea di fondare uno Stato Islamico. Tale nuova classe sociale turca ha visto di buon occhio gli sforzi di Gulen di partire da un ripristino del sistema educativo nazionale, i cui insegnamenti erano tesi a garantire anche agli ultimi la possibilità di accrescere il proprio status sociale pur rimanendo musulmani devoti. La nascita delle scuole di Gulen ha rappresentato, nei decenni scorsi, uno spartiacque nella riorganizzazione sociale della Repubblica turca. Da un punto di vista più ampio, Gulen stesso definisce il movimento una ‘società’ dove “la somma totale delle energie generate dai singoli viene utilizzata per una ulteriore crescita, e – come obiettivo finale – per una riforma morale della società, che vada di pari passo con l’intenzione di re-islamizzare i paesi musulmani”. Per trasformare un individuo in un “soldato della luce”, che lotta per raggiungere il proprio obiettivo con tutto se stesso, Gulen ritiene sia necessario riempire le “teste vuote” di una “generazione che vive secondo paradigmi vuoti” con le verità della fede. I sostenitori più fedeli del movimento ritengono di soddisfare un “mandato divino reso manifesto”, che sposa appieno le parole del Profeta: “I fedeli più sinceri non sono qui con me. Essi sono coloro i quali agiranno quando l’Islam sarà sotto attacco dall’interno e dall’esterno; essi arriveranno e garantiranno il messaggio di Dio con virtù morali e comportamenti esemplari”. Di conseguenza, Gulen è visto dai suoi sostenitori come l’atteso rinnovatore della fede, e molti considerano il suo messaggio come espressione di ispirazione divina.
Ma la forza del movimento giace soprattutto nella capacità di non agire in maniera prettamente religiosa: si evitano infatti battaglie per la costruzione di moschee e l’insegnamento islamico è bandito dalle scuole di Gulen, piuttosto si tende paradossalmente all’insegnamento del secolarismo necessario per una élite musulmana affinché possa affermarsi nell’attuale società. Alcuni osservatori stranieri hanno paragonato il movimento di Gulen alla “Missione Interna” in Germania del Cristianesimo durante la rivoluzione industriale, dove gli apparati religiosi organizzavano opere caritatevoli nel tentativo di rafforzare la consapevolezza religiosa e simultaneamente aumentarne l’identità. Altri aspetti fondamentali del movimento li si ritrovano nella volontà di instaurare un dialogo tra le fedi, con l’apertura di numerosi centri atti allo scopo, e nella convinzione del suo leader della compatibilità possibile tra Islam e democrazia. Tali punti di vista, se non ricevono una particolare approvazione in patria, diventano fondamentali nei 180 paesi stranieri in cui operano le scuole del movimento, e in particolare in Germania e negli Stati Uniti, dove l’atteggiamento di Gulen è visto come ‘modernizzatore’.
Ulteriore punto cardine del movimento è l’origine dei suoi finanziamenti: la maggior parte dei fondi arrivano dalla TUSKON, la Confederazione turca di industrali e uomini d’affari – principalmente provenienti dall’Anatolia, la quale tende a evitare qualsiasi coinvolgimento politico, sia a livello ideologico che nel dibattito politico quotidiano. Tutti questi elementi insieme hanno contribuito negli anni alla crescita silenziosa ed esponenziale del movimento, che ha saputo garantirsi le posizioni politiche più favorevoli in base all’evenienza – lo stesso AKP, alle sue origini, era appoggiato da Gulen – e a diventare un attore di peso sullo scenario internazionale, senza sottovalutare che la formazione della nuova ‘generazione rampante’ è riuscita a insinuarsi in apparati strategici dello Stato turco. Gli stessi massicciamente purgati da Erdogan negli ultimi giorni.
Origini e ascesa di Fethullah Gulen
Figlio di un imam, Fethullah Gulen nasce il 27 aprile 1938 nel villaggio di Pasinler, provincia di Erzurum, nell’Anatolia Orientale. Nel 1959 diviene egli stesso un imam e predicatore, e viene inviato a Edirne, ai confini con la Bulgaria. Dopo il servizio militare e un breve periodo trascorso nel paese natale, nel 1964 torna a Edirne dove si fa notare per le sue capacità oratorie e in breve viene trasferito a Smirne sull’Egeo, dove si organizza il suo primo gruppo di sostenitori.
Il 21 marzo del 1971 i militari interrompono l’attività parlamentare in Turchia per la seconda volta nella storia della Repubblica (in un paese come la Turchia, l’esercito è custode del secolarismo e può prendere il potere se ritiene la democrazia sotto attacco). Tra le ragioni che giustificano il colpo di stato, gli ufficiali parlano anche di “attività religiose reazionarie”. Tra gli arrestati c’è anche Gulen, che viene però rilasciato poco dopo, riprende la sua attività di predicatore e vede crescere il numero di seguaci. In quegli anni nasce la rivista Sızıntı, per la quale Gulen firma editoriali, e vengono redatti i primi programmi d’insegnamento per le ammissioni all’università. Gli anni settanta hanno anche segnato la nascita dei primi partiti di matrice islamica, con gli ovvi dibattiti tra la necessità di “proteggere i musulmani dall’Europa” e il secolarismo nazionale. In questo contesto, Gulen si oppone alla politicizzazione dell’Islam.
Con l’ennesimo colpo di stato perpetrato in Turchia, il 12 settembre 1980, Gulen prende le posizioni dei leader che hanno guidato il golpe, e in un editoriale del Sızıntı Fethullah descrive l’Anatolia come “l’ultimo custode, contro la mentalità corrotta dei militanti, dei gesuiti e contro l’avvelenamento della lussuria, dell’alcol e delle ideologie e le filosofie occidentali”. Aggiunge inoltre che “le capacità dell’Anatolia sono basate sullo spirito nazional-religioso e risoluto della sua gente”. Conclude l’articolo con il tentativo di legittimare il proprio movimento agli occhi dei militari: “Nel tentativo di liberare il corpo nazionale dall’ulcera cancerosa che si sta consumando da anni, un più profondamente radicato movimento è necessario, che parta dal profondo del cuore”. Per i seguenti 17 anni, l’appoggio al colpo di stato da parte di Gulen gli garantisce un grado di impunità relativamente ampio.
Da un punto di vista di visione politica, l’atteggiamento di Gulen risulta molto prossimo alle idee del leader del primo partito di matrice islamica in Turchia, il MSP, guidato da Necmettin Erbakan: entrambi condividono la condanna dell’Occidente e del suo stile di vita, condannano la glorificazione dell’Impero Ottomano, sono ostili contro i non-musulmani (specie i cristiani), e ritengono che la Turchia debba diventare una nazione religiosa, un concetto che include la compromissione della pluralità e di una certa uguaglianza sociale. Ciò che Gulen si guarda bene dal fare è partecipare ai dibattiti che possano interessare la presenza forte o debole dell’Islam nella vita pubblica, o le discussioni sul velo, i pellegrinaggi e la formazione di figure religiose nelle scuole pubbliche. Questo atteggiamento ha portato, nel tempo, a vedere Gulen come una figura essenzialmente non politica. Nel frattempo, i promotori del colpo di stato cominciano ad adottare le linee di pensiero di Gulen e di Erbakan, dando vita a ciò che verrà poi definito il “kemalismo in salsa islamica” e aprirà la strada ai primi partiti di matrice islamica della Repubblica turca, che cominceranno a conquistare sempre più piazze e consensi. Ciononostante bisognerà attendere gli inizi degli anni novanta per decretare l’effettiva ascesa – in termini di influenza – di Gulen.
Con la fine dell’Unione Sovietica (e con la disgregazione della Jugoslavia), la Turchia si è ritrovata con nuove aree di influenza libere in Asia Centrale e nei Balcani, con la formazione di numerosi nuovi stati che si dichiaravano indipendenti. Viene scelta la rete delle scuole di Gulen per mantenere uno specifico punto di riferimento turco nei nuovi paesi, e stando a un resoconto pubblicato dalla rivista Aksion, vi sarebbe stato un diretto coinvolgimento del Primo Ministro Turgut Ozal. L’episodio segna in maniera marcata l’entrata diretta di Gulen negli affari domestici e stranieri legati alle sfide dello Stato turco, e Gulen non perde occasione per mantenere legami con le più alte cariche della politica di allora.
Poi arriva il 1997, altro anno cruciale nella vita di Fethullah e del suo movimento: storico è il suo incontro con Papa Giovanni Paolo II, nell’intenzione di intessere un primo dialogo intrareligioso con i cristiani, ma il 1997 è anche l’anno in cui i militari avvertono il pericolo di una nuova ‘ondata islamica’ che minaccia il paese. Non si ripeterà un colpo di stato, ma molte misure vengono prese in tale direzione, come bandire il partito filo-islamico di Erbakan, limitare della formazione di imam e predicatori, rimuovere gli attivisti religiosi dal servizio pubblico, garantire un limite ai fondi versati dai privati per le attività religiose e trasferire le scuole guidate dalle autorità islamiche nella sfera delle competenze statali. Gulen si ritrova costretto a dover consegnare circa 300 scuole private – in Turchia e all’estero – al Ministro dell’Educazione.
Appena due anni dopo, nel 1999, una campagna giornalistica denigratoria ha inizio contro Gulen; è in quell’anno in cui il leader decide di andare in esilio forzato negli Stati Uniti (in Pennysilvania), dove attualmente risiede.
AKP e Fethullah Gulen: dall’amore all’odio
Sia l’AKP che il movimento di Gulen testimoniano l’ascesa di una classe medio-alta musulmana in Turchia, pronta a prendere le distanze dal Kemalismo e con una profonda conoscenza delle dinamiche socio-economiche odierne. Non va inoltre sottovalutata la formazione di figure altamente qualificate capaci di ricoprire ruoli nelle sfere più alte, individui che oggi rappresentano una vera e propria élite, la “gioventù devota”, come la definisce Erdogan. L’islamismo di entrambi i gruppi è fortemente caratterizzato anche da un acceso nazionalismo, e dall’intenzione di diffondere ed estendere l’influenza turca in Medio Oriente e nel resto del mondo, nell’ideologia di porsi come contrappeso dell’occidentalizzazione.
Per comprendere meglio il punto di vista dei due gruppi, va sottolineata l’importanza del dibattito interno – tutto turco – sulla differenza tra “Stato” e “Governo”: a partire dagli anni ’50, con la scomparsa del sistema a partito unico in Turchia, nuovi gruppi politici di matrice islamica hanno cominciato a prendere il sopravvento. L’esercito, le élite economiche e burocratiche, esponenti delle università e della magistratura continuano a sostenere il Partito Repubblicano. A questo potente blocco viene dato il nome di “Stato”, ed è lo stesso che, nei tre golpe precedenti (1960, 1971 e 1980) ha costretto alle dimissioni i governi conservatori di destra (nel 1997 non c’è stato golpe, ma le pressioni dell’esercito sul partito di Erbakan lo costrinsero a lasciare). Nel 2002 si insedia l’AKP al governo, e quando lo “Stato” prova a intralciarne l’ascesa, il partito prepara una contro-offensiva, tirando in ballo scandali e operazioni sottocopertura perpetrati dalla polizia che portano a una escalation di accuse, arresti e processi; una serie di misure portate avanti nel nome della protezione di un governo democraticamente eletto, puntando il dito contro una presunta rete terroristica che coinvolgeva alte figure militari e della sicurezza turca – nota con il nome di Ergenekon.
Nel corso di questa battaglia, il movimento di Gulen si oppone ai poteri dello “Stato” e mostra per la prima volta una certa simpatia nei confronti dell’AKP. L’empatia nasce dal fatto che il partito ha gradualmente abbandonato le posizioni di Erbakan, portandosi su una linea più prossima a Gulen di una “politica a lungo termine per la ricostruzione dello stato e della società”. Il supporto di Gulen in questa prima fase dell’insediamento del partito di Erdogan è fondamentale: Gulen utilizza la propria rete di contatti e le infiltrazioni dei suoi sostenitori all’interno dell’apparato statale turco per portare avanti la battaglia dell’AKP, riuscendo nell’intento di indebolire fortemente lo strapotere militare presente nel paese. I sostenitori di Gulen giustificano il supporto contro la “cospirazione Ergenekon” sostenendo che “le persone smetteranno di temere lo Stato quando un sufficiente numero di individui avrà trovato un luogo dove poter dichiarare, ‘questo è il mio Stato’”.
L’idillio dura per diversi anni, e tocca il suo apice nel 2010, con l’appello di Gulen a supportare il referendum indetto dall’AKP per modificare la costituzione (“persino i defunti dovrebbero essere chiamati ad esprimere il proprio voto!”). Il primo seme della discordia si ha invece subito dopo, nel giugno del 2010, in seguito alla spinosa questione della Mavi Marmara e l’incrinazione dei rapporti tra Turchia e Israele (dalle pagine del Wall Street Journal, Gulen critica duramente la campagna anti-israeliana del governo turco, definendola una “illegittima sfida all’autorità dello Stato di Israele”). Da quel momento in avanti la faida prende direzioni inimmaginabili. In primo luogo, Erdogan pubblicamente accusa le corti speciali e i pubblici ministeri di voler creare il famoso “stato all’interno dello Stato”, e tutte le cricche di Gulen – che in passato avevano favorito la vittoria durante la “cospirazione Ergenekon” – vengono rimproverate di agire per interessi politici personali. Erdogan inoltre afferma che il movimento di Gulen ha l’intenzione di tentare di dominare l’intera macchina burocratica turca. Lo stesso atteggiamento del movimento comincia ad abbandonare le precedenti cautele e moderazioni sul terreno politico, e le visioni cominciano a divergere su questioni spinose – come la questione kurda. Nel 2012 esplode la cosiddetta “crisi del MIT”, quando Hakan Fidan, il responsabile dell’Agenzia di Intelligence del governo, viene chiamato a testimoniare su presunte negoziazioni segrete con il PKK. La battaglia tra i due si sposta sul campo della sicurezza e dell’intelligence, ma non è finita qui. L’anno seguente Erdogan minaccia di chiudere le scuole primarie private, in maggioranza nelle mani di Gulen, mentre non passerà molto tempo che il pubblico ministero Zekeriya Oz, ritenuto appartenente al movimento di Gulen, tira fuori la bomba: intercettazioni su un presunto giro di mazzette che colpiscono anche numerose cariche ministeriali, uomini d’affari e burocrati, e persino il figlio di Erdogan, Bilal. Il più grosso scandalo di corruzione nella storia recente turca. Erdogan si difende tirando ancora una volta in ballo la cospirazione dello “stato nello stato” di Gulen; dall’altro lato si accusa l’AKP di voler insabbiare la corruzione ripristinando le teorie cospirazioniste e bloccando il lavoro della magistratura.
La battaglia è accesa, e gli ultimi eventi in Turchia hanno il sapore dello scontro finale. Risulta ancora poco chiaro chi vincerà, se di ‘vittoria’ si può parlare. Il movimento di Gulen non è un partito politico, e non esistono in Turchia altri riferimenti politici con cui Gulen si sentirebbe a proprio agio. È il motivo per cui alcuni osservatori ritengono che, più che un movimento anti-AKP, quello dell’imam in esilio è un movimento anti-Erdogan, che spera in un post-Erdogan per poter rinascere con un partito meno determinato dell’attuale AKP. Se Erdogan annienterà il movimento perderà una grossa fetta di voti, diminuendo al tempo stesso le proprie “credenziali democratiche”; se avrà la meglio Gulen, potrà soltanto attestare la propria massiccia influenza nel paese, e accrescere la propria reputazione di rappresentare l’espressione moderata dell’“Islam culturale”. Rimangono poche amare certezze in questo stato di cose, e chi ne risente e ne risentirà è la stabilità politica ed economica del paese. Altro dato pesante riguarda il centenario secolarismo turco, che se non è già morto, pare abbia oramai i giorni contati.
Foto: flashtrafficblog.worldpress.com
Dino Buonaiuto