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Festival di Roma, "Seventh Code" di Kiyoshi Kurosawa (Miglior Regia): dalla Russia senza amore
FESTIVAL DI ROMA, FILM IN CONCORSO PREMIATO PER LA MIGLIOR REGIA: SEVENTH CODE DI KIYOSHI KUROSAWA, LA RECENSIONE. Senza vero incipit, con una coda incerta eppure infuocata d'avvenimenti, con uno sviluppo cadenzato come un noir dalla freschezza letale di una Nouvelle Vague, più che interpretato il film appare da interpretare, popolato da presenze con tracce umane, lacerti emotivi, sogni troncati o da inseguire. [MORE]
Sembra basti poco per farla invaghire: la giovane Akiko ha seguito fino a Vladivostok, porto della Russia distante un centinaio di chilometri da Tokyo, il connazionale Matsunaga, incontrato una sera con amici in Giappone. Si porta dietro un valigione ingombrante e questa smania di reincontrare l'uomo, che l'accoglie però freddamente: sì, paga il conto al bar, ma sembra piuttosto compreso nei propri affari, forse nemmeno così puliti. La giovane se lo riperde, ma pur di ritrovarlo si fermerà nella cittadina ex sovietica, cominciando anche a lavorare in un ristorante. Prima o poi passerà, altrimenti si potrà sempre forzare il destino.
LA GIUSTA DISTANZA - Premiato al Festival di Roma 2013 per il miglior contributo tecnico (Koichi Takahashi al montaggio) e per la miglior regia, l'ultimo film di Kiyoshi Kurosawa (Sebunsu Kodo in lingua originale) è una gemma ridotta nella caratura (sessanta minuti) ma dal potere ipnotico, una storia rapida ma densa d'un qualche mesmerizzante smalto visivo, tutta cesellata sul crinale sottile delle svolte d'un fiato e sul bordo d'un fuori campo dalle infinite traieittorie. Il film sembra infatti sbucare da qualche groviglio di esistenze, partendo in situazione, con la corsa di Akiko dietro una macchina azzurra, prima verso il piano di fondo, poi all'indietro, verso il primo piano, dopo aver scavalcato una ringhiera: un'inquadratura elegantissima d'un passo scenico, col cordone dello sguardo che si allunga, vicino\lontano, così come tutto il film sembra alternare zoomate narrative prossime ad entrare nel nucleo caldo della vicenda, per poi prendere studiate distanze da fatti e personaggi.
Matsunaga, ad esempio, dopo la comparsa iniziale viene prima spiato, poi diventa un wanted; Akiko sembra spinta da un'ossessione indecifrabile verso l'uomo, e nonostante il film si focalizzi su di lei, la sua fredda determinazione pare farsi sfuggente, un riflesso inafferrabile: amore gelido e disamorato, che incarna una sopensione emotiva. Senza vero incipit, con una coda incerta eppure infuocata d'avvenimenti, con uno sviluppo cadenzato come un noir dalla freschezza letale di una Nouvelle Vague, più che interpretato il film appare da interpretare, popolato da presenze con tracce umane, lacerti emotivi, sogni troncati o da inseguire.
FLOWER POWER - Pochi versi proferiti in un aeroporto prima di un addio paiono ricamare un sottotesto di significati, un mantra che risuona nella testa come l'opportuno commento musicale di Yusuke Haiashi, mentre due margherite comperate da una vecchia ambulante e regalate ad Akiko restituiscono uno sprazzo di terrestre semplicità. Quella di Kurosawa non è mancanza d'idee, ma è l'arte giapponese del pieno e del vuoto, dei fiori recisi (ikebana), come quelli sulla camicetta di Akiko: arte che, tradotta in opera filmica, diventa un campio di tensioni di superficie.
Tutto il vuoto, che nessun flashback colmerà, tutto ciò che resta fuori dalle incerte identità dei personaggi si disperde nel pieno di accelerazioni dei fatti, con un crescendo da spy story che poi nemmeno decresce, come la stessa fiamma che si ravvivi o si faccia più fioca. Rispetto alla violenza, turgida, di alcune scene, come uno sparo attraverso un cuscino, la visività cerimoniale dei piani sequenza, col vellutato trascorrere della macchina da presa sul finale, in campo lungo, in transizione verso i titoli di coda, sembra quasi svuotare l'immagine della propria consistenza, facendo un panno di seta finissimo. Una regia che ammanta, dunque; e non è troppo chiassosa nemmeno l'effigie pop della protagonista Atsuko Maeda, uni degli idoli musicali più gettonati del Giappone, membro del più numeroso gruppo musicale del mondo (le AKB48) ma anche solista. La sua bellezza, esile e viperina, tutta frangetta e tendini pronti alla rincorsa e al contatto fisico, ammalia e disturba come Seventh Code, come un accordo di troppo, come una dichiarazione d'amore in un codice che contenga pericolosi segreti.
REGIA: Kiyoshi Kurosawa
SCENEGGIATURA: Kiyoshi Kurosawa
ATTORI:Atsuko Maeda, Ryôhei Suzuki
PRODUZIONE: AKS Co., Django Film, Nikkatsu
P AESE: 2013
DURATA: 60 Min
FORMATO: Colore
Antonio Maiorino
Critico cinematografico e d'arte - on Twitter
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