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Festival di Roma, Acrid di Kiarash Asadizadeh: il cinema iraniano c'è, la famiglia meno

FESTIVAL DI ROMA, IN CONCORSO: ACRID DI KIARASH ASADIZADEH. Un'opera prima che mostra la buona salute del cinema iraniano e la cattiva salute della famiglia in Iran, attraverso un dramma di legami spezzati.

Lo si può dire ad alta voce, il cinema iraniano è in salute. E suona benissimo, sentirlo dire, quando a rappresentarlo sono giovani leve. Così, è dolcissimo il sapore di Acrid – che italiano vuol dire agro – del cineasta classe ’81 Kiarash Asadizadeh, al primo lungometraggio, certo acerba, ma che lascia intravedere doti di cui si auspica il felice condimento dell’esperienza. Una struttura circolare e concatenata: Solheila e Jalal sono una coppia di mezza età, taciturna, ma è meglio così, perché quando parlano dicono cose infelici e sull'infelicità; Azar è la segretaria dello studio medico di Jalal e vive una crisi col marito Khosro, che non esita ad attaccare rumorose brighe con la consorte anche se i bambini sono lì, e piangono; Simin è allieva della scuola guida di Khosro, lo frequenta anche al di fuori delle lezioni ed insegna all’università; i corsi di chimica di Simin sono seguiti da Mahsa, cottissima del fidanzato ma non priva di dubbi. Il cerchio si chiude, qualche cuore si spezza. [MORE]

ERAVAMO TANTO IRANIANI – Film sulla famiglia iraniana degli anni duemila, Acrid tesse una rete di legami utile a mappare, attraverso micro-storie, l’involuzione in fragili legami ed abbracci rotti del nucleo primigenio della società. Nel mostrare lo sfaldarsi della tradizione iraniana, assai ligia alla sacralità del vincolo uomo-donna, il film di Asadizadeh inocula strategiche dosi di veleno, che mostrano la paralisi emotiva e gli spasmi di persone che dovrebbero incontrarsi, ma finiscono per scontrarsi. Il contatto fisico – crash, verrebbe da dire parafrasando il titolo del film di Paul Haggis – si produce ad ogni livello e secondo ogni possibile traiettoria di questa fisica della società, i cui elementi sono atomizzati, si disgregano, si lambiscono, si allontanano: c’è la bega tra i giovani fidanzatini, ma anche la crisi della coppia con figli adulti; c’è l’amante terza incomoda, ma anche la coppia in cui è incomodo, semplicemente, il secondo, cioè il marito violento; ci sono sguardi d’odio, ma anche sguardi d’amore; avances gradite, ma anche atteggiamenti untuosi come quelli del ginecologo Jalal, che assume segretarie rigorosamente nubili, per indovinabili pulsioni. La storia penetra negli spazi domestici, senza temere d’indugiare nei silenzi, questi sì eloquenti e vibranti – a differenza degli spazi morti di tante robette viste al Festival di Roma in questi giorni. Per dirne una, la scena può stallare senza colpo ferire, anzi, proprio perché ferisce, su di una ragazza che improvvisamente si turba e piange, sulla spiaggia, mentre raccoglie le conchiglie, per aver visto qualcosa fuori campo: un offside tutto giocato sulla percezione, le voci di dentro ed il fragore di qualcosa che si rompe, fuori, sul rumore ovattato delle onde.

ERAVAMO TANTO INESPERTI – Il ritmo dei singoli episodi può rallentare, ma i continui cambi di scena rilanciano le tensioni; i personaggi possono essere più sbozzati che definiti, nel ruotare delle routine e nell’avvicendarsi dei contesti, ma per un autore con apprezzabile esperienza di cortometraggi come Asadizadeh (dal 2001), il formato babel-ico – vagamente “alla Inarritu” – delle storie ad intreccio si addice per transitare alla prova del lungometraggio. In effetti, però, non ci sarebbero veri e propri intrecci, perché nel volo d’uccello sulle vicissitudini di familiari, para-familiari ed affini, il passaggio da una vicenda all’altra è talora condotto su una corda da equilibrista, che non annoda. Sintomatico il fatto che Mahsa non abbia nessun vero collegamento, se non quello puramente pretestuoso, col personaggio della docente di chimica, di cui è semplicemente allieva: la lezione è nient’altro che un palco mobile, montato ad hoc per l'interludio.

GIOCO DELLA SOCIETÁ – Assieme a singole scelte di gestione, questo carattere d’occasionalità mostra come ancora manchi, al giovane iraniano, un po’ di piglio. È però rivelatrice, in positivo agrodolce, una scena come quella della serata di gruppo tra i compagni universitari di Masha nell’ostello, dove maschi e femmine, separati, si riuniscono e giocano. Non si sa quanto sia voluta la felice circostanza che il gioco sia di ruolo, col mafioso, il poliziotto, il dottore, ecc., e la votazione per ostracismo in stile nomination: il nemico è tra noi, in famiglia – termine del gergo mafioso. Un gioco di società che adombra, sinistramente, meccanismi della società. Ma il montaggio non convince pienamente: a volte appare maldestramente affrettato, trapassando di volto in volto con stacchi piuttosto azzardati. Ma la mano di Acrid, nel complesso, è vincente, e quella di Asadizadeh è buona – in proiezione di un rilancio.

(in foto: immagini dal film)

GENERE: Drammatico
REGIA: Kiarash Asadizadeh
SCENEGGIATURA: Kiarash Asadizadeh
ATTORI: Saber Abar, Pantea Panahiha, Shabnam Moghadami, Mahsa Alafar, Roya Javidnia, Ehsan Amani
FOTOGRAFIA: Majid Gorjian
MONTAGGIO: Kiarash Asadizadeh
MUSICHE: Ankido Darash
PRODUZIONE: Wide
PAESE: Iran 2013
DURATA: 94 Min
FORMATO: Colore

Antonio Maiorino
Critico cinematografico e d'arte - on Twitter