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Festival di Roma 2013, un bilancio: una festa, ma con troppi lenti

NAPOLI, 19 NOVEMBRE 2013 - Mentre i riflettori di appassionati e professionisti del cinema sono puntati sull'incipiente Festival di Torino (22 - 30 novembre), non può non saltare all'occhio l'ideale passaggio di testimone col Festival di Roma appena concluso (8 - 17 novembre). Nemmeno troppo ideale: perchè, invero, non si capisce quanto sia conveniente avere due festival italiani, fisiologicamente ineguali in qualità e anzianità ma egualmente ambiziosi, a ridosso di pochi giorni, nello stesso mese. Con settembre consacrato a Venezia, avere il festival della Capitale ad ottobre avrebbe consentito di allineare un trimestre davvero interessante per l'Italia, con Torino a novembre. Questione forse oziosa, ma con due manifestazioni così importanti a stretto giro l'eco della prima - che serve, e maledettamente, per ingrandirsi - si disperde più facilmente.[MORE]

I LENTI ALLA FESTA - E, appunto, è un peccato: specie ora che, con tutta probabilità, il Festival di Roma si trova a dover decidere cosa voler fare da grande, cioè, se diventare grande. A partire dalla direzione artistica di Marco Muller, con i rumours che sibilano di un possibile abbandono, ma soprattutto, più in generale, con la ricerca di partner (il Mibac, suggeriva Zingaretti pochi giorni fa) con cui decollare definitivamente. Per ora, cos'abbiamo? L'ottava edizione, con numeri da record, si è portata dietro le solite polemiche sulla distinzione festa\festival, che in realtà l'organizzazione ha cercato di minimizzare, evidenziando la prossimità concettuale delle due espressioni: chi porta del buon cinema, automaticamente lo festeggia. Ma il problema nasce qui. I film in concorso - opinione di chi scrive, ma largamente verificata anche tra i colleghi durante i giorni del Festival - sono apparsi decisamente sottotono, e non solo per la qualità piuttosto discutibile - appunto, saremmo nel campo dell'opinabile, per quanto il confronto con i titoli tanto di Venezia quanto di Torino sia abbastanza dirimente; soprattutto, perchè è apparsa deliberata la scelta di film "autoriali" d'andamento ossessivamente lento (I am not him, I corpi estranei o Manto acuifero), con qualche idea ma poca incisività (A vida invisìvelSorrow and joy o Volantin cortao), o semplicemente eseguiti con mediocrità nonostante i cast più o meno altisonanti (Out of the furnace o Another me). Si dirà: è giusto che il cinema d'un certo livello si prenda il rischio di essere così. Di là della discutibilità dell'assunto, ancora una volta, però, la contraddizione deflagra... perchè i botteghini del Festival sono istruiti rigorosamente per vendere biglietti al pubblico, la cui fila è sbrigata prima rispetto a quella degli accreditati (giornalisti, professionisti, studenti ed esperti del settore), che hanno protestato più di una volta. E' qui la festa, ma chi è invitato?

OGNUNO HA IL SUO CLUB - Clamoroso, in questo senso, il contrasto sonoro tra il ronfare di taluni alla proiezione del film premiato, Tir di Alberto Fasulo, un documentario premiato per voga e per snobismo, farraginoso oltre la misura del tollerabile, e l'applauso al film premiato dal pubblico, Dallas Buyers Club del canadese Jean-Marc Vallèe, utile promemoria a cosa sia davvero il cinema: raccontare storie. Tir si spaccia, anzi, è cinema verità. Curioso, però, che il film di Vallèe sia tratto da una storia vera. Al cinema spetta saper comunicare senza introversione, senza dimenticare lo spettatore in nome dell'artisticità o dell'ansia espressiva del regista o dello sceneggiatore. E quand'anche - osservazione opportuna - del cinema, in fondo, ci appassionasse la varietà, ossia il ventaglio delle traiettorie e delle possibilità dello sguardo, cionondimeno premiare il film di Fasulo resterebbe un'insidia, veicolando l'idea, diffusissima, che l'autorialità si misuri in ipotizzate e solipsistiche profondità d'animo, respingenti nell'aspetto, pindariche nelle velleità, o semplicemente noiose: club per pochi. Al cinema si sogna, ma non per questo bisogna addormentarsi.

MANUALE D'AMORE DI UN SISTEMA OPERATIVO - Un antidoto alla "romanite", o "ronfanite" di questo festival, è stato sicuramente Her di Spike Jonze, con cui Scarlett Johansson è stata premiata quale miglior attrice, nonostante nel film non compaia mai fisicamente e sia solo una voce (la storia è l'amore fantascientifico tra un uomo ed un sistema operativo). Jonze trapassa il confine dei generi, ma soprattutto disintegra il pensabile cinematografico, filmando una storia che è un unicum, nell'essere un agglomerato di fantasie individuali che si sottraggono alla tipizzazione, al pensato ordinario, per tornare, chiudendo il cerchio, cinema pura: immaginazione distillata. L'esatto opposto del film come "pezzo d'esistenza", in cui succede pochissimo, ma ci si bea di dire che quel pochissimo sia reale: eppure, in barba a chi difende decanta quel cinema così decantato, nel senso di epurato (di fatti, e magari d'emozioni), Her di Spike Jonze è un film umano, umanissimo nella propria irrealtà, in grado di parlare in maniera piana ed immediata attraverso una fantasia remotissima: ma non lontana dai cuori e dalle teste di chi la vede messa in scena. Il Festival e tanto cinema dovrebbero riscoprire il lato femminile, l'Her, questo erotismo del guardare, questo funzionare da corpo anche se si è solo immagine.

LE MANI DI ALICE SULLA CITTA' - La dimensione di evento del Festival, però, funziona. Un paradosso, dunque, quello di accusare il Festival di Roma di essere troppo popolare: funzionano le folle, anche fastidiose, che assiepano il red carpet, dove sfilano calibri come Scarlett oppure Jennifer Lawrence; funzionano le anteprime che i palati fini direbbero "commerciali", da Planes 3D della Disney, ad Hunger Games - La ragazza di fuoco, fino a L'ultima ruota del carro di Veronesi; funzionano tanti film fuori concorso, non sempre qualitativamente eccelsi, anzi, a volte filmacci, ma gustosamente filmacci, da Song e Napule dei Manetti Bros o The Green Inferno di Eli Roth, allo spassoso Las brujas de Zugarramurdi di Alex de la Iglesia, che chi ha gradito Machete Kills dovrebbe assolutamente recuperare; funziona il fatto che ci siano più sezioni, da Cinemaxxi a Prospettive Doc (in cui, magari, avremmo in parte rivalutato Tir)ma soprattutto Alice nella Città (vince il crudissimo The Disciple, film candidato dalla Finlandia agli Oscar) che procede speditamente in maniera autonoma e parallela, e che se ben coltivato deve - un modale che si preferisce a può - diventare un festival nel festival rilevante almeno quanto Giffoni. Perchè, prima di tutto, la platea è la migliore, ossia quella giovanile; e perchè quel cinema è su misura... per essere davvero cinema. E' una Cinecittà, non è un Cineclub.
 

Antonio Maiorino
Critico cinematografico e d'arte - on Twitter