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Faito Doc Festival, Stranger in Paradise di Guido Hendrikx: benvenuti o malvenuti al Nord
Al Faito Doc Festival nel concorso lunghi è la volta di Stranger in Paradise di Guido Hendrikx, premiato anche al Biografilm: un saggio cinematografico sui migranti con una forma lucida e sperimentale.
Silenzio in classe, parla il prof. Che ha personalità multiple. In un’aula scolastica in Sicilia, l’attore Valentijn Dhaenens impersona un addetto ai servizi sociali olandesi che accoglie separatamente tre gruppi di giovani migranti, con ognuno dei quali assume una diversa maschera: il rifiuto catastrofista, con tanto di profezia della fine del welfare per colpa degli sbarchi; l’accettazione idealista, con tanto di selfie finale di gruppo e pacche sulla spalla; la burocrazia indifferente, con tanto di colloqui stile X-Factor per stabilire chi abbia i requisiti per il permesso quinquennale in Olanda. Esperimento cinico? Nemmeno tanto, perché i rifugiati, che interpretano sé stessi, sono ben informati. E soprattutto, perché questo è quello che si sentiranno dire in Europa. A ben vedere, il film è onesto, semmai è il Continente ad essere un po’ schizofrenico.
Con una struttura rigorosa – prologo, tre atti, epilogo – ed una dialettica chirurgica, studiata a tavolino, il regista olandese Guido Hendrikx confeziona esattamente ciò che voleva realizzare: “a political essay movie”, un film a mo’ di saggio politico, come dichiara il protagonista nelle battute conclusive. Coerente ai propri propositi, Stranger in Paradise riesce dunque cristallino ed implacabile, sin dal prologo, incalzantemente montato, in cui la voce fuori campo sintetizza la storia dell’umanità dividendola quest’ultima in Southerners e Northeners, quelli del Sud e quelli del Nord, i primi in fuga, i secondi sospesi sospesi tra progresso e conflitto, ed ora indecisi sulla linea comune da assumere: 150 lingue sono troppe per mettersi d’accordo. In mezzo, il vuoto tra l’inferno ed il paradiso. [MORE]
Cristallino, però, non vuol dire cristallizzato. Stranger in Paradise non è semplice saggistica filmata, sia perché è un film dialettico, capace di assorbire punti di vista diversi anziché costituirsi come opera a tesi, sia perché alla struttura di docu-fiction sa infondere una severa ma credibile anima drammatica. Basterebbe studiare le varianti sceniche da un gruppo all’altro per accorgersene: lo pseudo-addetto Dhaenens alzato o seduto, dietro la cattedra o tra i migranti, ripreso di fronte o di lato; i rifugiati, ora ostinati sfidanti nel campo-controcampo senza stacchi che li contrappone all’attore olandese, ora sognatori ad occhi chiusi in primo piano, chiamati ad immaginare la casa ed il lavoro dei sogni, ora ancora ripresi con un long take marziale, quasi fossero soldati sull'attenti, pronti alla durezza della selezione, e poi ancora, frontalmente, a fine atto, per coglierne il disagio, a dispetto del buon esito.
Persino la lavagna cambia aspetto: un buco nero che smaterializza le speranze dietro freddi calcoli nella prima parte, un’incoraggiante isola che non c’è con una cartina geografica senza confini nella seconda. Per poi sparire, lasciando spazio al vuoto ambulatoriale del botta e risposta nel colloquio, in cui lo pseudo-assistente disseziona le memorie dei migranti con freddezza impiegatizia.
Così, sapienti scelte di prossemica, recitazione, allestimento del set ed inquadrature consentono a Stranger in Paradise di sganciarsi dall’aspetto saputello ed algido che potrebbe prospettare, risultando a suo modo – il suo modo politico – illuminante sulla crudezza di alcuni aspetti della mentalità europea: “io sono nato qui, voi siete nati lì, questa è la vita”. E nella terra di mezzo, il cinema per far pensare.
(immagini: dettagli di fotogrammi di Stranger in Paradise)
Antonio Maiorino