InfoOggi Cinema
Faito Doc Festival, ecco Taste of Cement: quegli esuli siriani oltre il muro del ricordo
Faito Doc Festival 2018, sul tema delle "vertigini": dopo la giornata inaugurale, il documentario Taste of Cement apre alle 21 il concorso dei lunghi e riapre le ferite della guerra in Siria.
In principio è la pietra: granitica nel silenzio, ruvida nell’immobilità. La macchina da presa l’accarezza morbidamente, per poi trascorrere nella visione aerea del panorama di Beirut. Così comincia Taste of Cement di Ziad Kalthoum: dalla natura e dalla materia, quasi atemporali, alla città ed ai cantieri, che vivono ogni giorno secondo ritmi scanditi da trapani e martelli pneumatici. Nella città libanese, sono lavoratori siriani ad innalzare un grattacielo, mentre le loro case in Siria sono rase al suolo. Di questo esilio forzato il film è malinconico canto d’amore e vertiginosa testimonianza, riuscendo a fondere mirabilmente la cronaca contemporanea con una visione più ampia e suggestiva, che assorbe le vicende umane in qualcosa di più grande: un ciclo cosmico di distruzione e costruzione, dove la guerra sembra quasi inserirsi nell’ordine – o disordine – naturale.
Se questo è l’assunto di partenza, anzi, la pietra d’angolo, poi l’edificio vien su con splendida ossatura visiva e concettuale per almeno due ragioni: una serie di indovinate scelte tecniche, che conferiscono al racconto un andamento in bilico tra la trance ed improvvise esplosioni visive; la coerenza incrollabile di approfondire, sempre attraverso le immagini, il tema della dialettica distruzione\costruzione. [MORE]
Quanto alla tecnica cinematografica, c’è innanzitutto una macchina da presa in grado di muoversi sul crinale degli opposti: riprese subacquee, come sospese, che raccontano di resti e macerie, contrapposte alla sospensione solida delle gru e dei ponteggi, da cui si stratificano gli scheletri degli edifici; la liquidità distante dell’oceano – associata, peraltro ad un ricordo d’infanzia – si solidifica negli azzurri compatti della fotografia, mentre il cemento è colto da scrupolosi close-up in quella fase in cui è ancora semi-liquido. Non solo: l’occhio del regista s’insinua nei muri, cerca scorci tra finestre, percorre brecce nelle pareti in costruzione. Il film è materico, le visioni sono concrezioni, del cemento s’ha davvero il gusto: sensazioni dall’esilio, più che cartoline.
E la guerra, per venire ai temi portanti di Taste of Cement, è appunto la guerra degli esiliati. Si tratta di un conflitto evocato, presente nell’assenza: è il racconto che il padre faceva al figlio; è il ricordo d’un trauma vissuto in prima persona, coi palazzi crollati e la bocca piena di polvere di cemento; è quella consapevolezza, catturata nei primi piani dei volti dei muratori siriani, che la Patria intanto si disfa tra schegge e polvere da sparo. Tanto è filtrata, questa sensazione di guerra, da diventare un’immagine riflessa e rimpicciolita negli occhi di chi guarda i reportage di guerra. C’è sempre uno schermo dell’anima a raccontarla. Fin quando, questo straordinario cinema che sa riassumere i contrari, non arriva alle esplosioni vere e proprie, rigorosamente predisposte da un montaggio sonoro che aveva assuefatto ai silenzi.
Taste of Cement, infatti, avvolge nelle proprie impressioni mentre sdipana le proprie riflessioni nascoste, ma sa anche toccare un climax inatteso, in cui forma e contenuto si uniscono, sublimandosi a vicenda: un montaggio provocante e provocatorio alterna con una mitragliata di stacchi le protuberanze minacciose dei carrarmati a quelle inerti delle gru, mentre i colpi esplosi s’avvicendano all’aggressività indolore del trapano elettrico. In questo marasma che tutto assorbe e livella – distruzione e costruzione, appunto – la macchina da presa diventa addirittura un vortice, fa ruotare l’immagine e la capovolge, muta nell’occhio di un ciclone, in un gorgo cadenzato: dietro Ziad Kalthoum documentarista sembra quasi spuntare il Terrence Malick di The Tree of Life, il poeta della petite sensation che si fa brivido cosmico. Ma questo è un Tree of Life and Death, piuttosto: perché c’è la voce narrante fuori campo a riportare tutto a scala umana, con il proprio diario di umanissime memorie, di finitezza, di fragilità, di accettazione inevitabile.
Ecco, allora, che Taste of Cement, schiva tutti i rischi di estetismo per farsi cinema etico, con l’uomo che acquista consapevolezza di tutta la sua fragilità, della sua piccolezza nella grandezza d'un cosmo che si rigenera. La notte vai a dormire, la mattina sei sotto le macerie col sapore del cemento in bocca. E mentre costruisci grattacieli a Beirut, avrai in bocca quel canto d’amore, quella ferita da raccontare con la malinconia di chi costruisce sapendo che altrove si distrugge.
(immagine principale: dettaglio di fotogramma di Taste of Cement; all'interno, altri due dettagli di fotogramma).
Antonio Maiorino