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Faito Doc Festival, "Aperti al pubblico" di Silvia Bellotti: quanto sono sudate le carte in ufficio

Al Faito Doc Festival 2018, nella sezione Campania Doc, approda Aperti al pubblico, documentario che s'inoltra tra i labirinti della burocrazia per ritrovare umanissime storie.

Welcome to the jungle, anche se è solo un pugno di uffici. All’Istituto Autonomo per la Case Popolari di Napoli e Provincia c’è densità lavorativa: apertura solo al martedì ed al venerdì, 100 impiegati, 40.000 alloggi in gestione con la relativa utenza a cui fornire servizio. Ma non è solo questo: si contratta, si blandisce, si discute, ci s'intende, si negozia, ci s’inalbera – in questa giungla. Perché questa è la burocrazia, ed Aperti al pubblico di Silvia Bellotti la ritrae trovando negli stanzoni sordi e grigi un teatro bell’e pronto per l’occhio della regia: ciak, si gira e si rigira tra scartoffie e labirinti kafkiani. Il mare, nella strada di fronte, è una piacevole cartolina di cui ci si dimentica troppo presto, affogati nelle carte: la macchina da presa lo riprende fugacemente, di tanto in tanto, come fosse uno scorcio proibito dalle finestre dei palazzoni. Troppi guai per fermarsi a guardare l’orizzonte; troppo sudate, sempre, quelle carte.

Se Napule è mille culure, di tutti i colori se ne vedono anche in quegli uffici, a dispetto della buona volontà di chi ci lavora. Tra le tante – ed è ordinaria amministrazione – la signora che per ritirare l’attestato, dopo complesso tira e molla con la gentile impiegata, capisce il da farsi: la domanda in un ufficio, il pagamento di euro 12,20 in un altro, il ritiro dell’attestato in un altro ancora. [MORE]

E poi un dedalo di micro-storie a cui accennare, un soggetto per ogni pratica, con tanto di svolta thrilling nell’ultima parte: l’anziana donna che per una firma sbagliata deve affrontare una bella grana. Tutto questo, ripreso con camera a spalla e stile essenziale. Non neutrale, in realtà, quanto “bipartisan”: si può simpatizzare sia per i lavoratori costretti a risolvere ogni sorta di problema (ma soprattutto a doversi spiegare), sia per gli utenti stessi, nei cui volti si coglie il dubbio, lo smarrimento, la preoccupazione, la perplessità, la combattività ed ogni sorta di sfumatura alternativa. Mille culure, appunto, e come direbbe Paolo Sorrentino: "hanno tutti ragione". Non ha nemmeno senso soffermarsi su campo e controcampo, quando è un unico campo di battaglia.

Il tema è quello della sopravvivenza alla e nella burocrazia, dunque, e lo stile di Silvia Bellotti – con la brava Claudia Brignone come aiuto regista e Simona Infante quale colorist – risulta di intelligente asciuttezza. A ben vedere, però, anzi, a ben ascoltare, è sotto la lingua che si nasconde un tesoro: da una parte, quella che Italo Calvino chiamava “l’antilingua” della burocrazia e delle comunicazioni al pubblico, con parole come proroga, delega, sollecito, sanatoria e nulla-osta; dall’altra, la parlata più viscerale ed espressiva dei napoletani, anche d'adozione. In mezzo, quello che i linguisti chiamano code switching: gli impiegati che, anche nel parlare ai superiori, passano in batter d’occhio dal freddo linguaggio d’ufficio al più sentito dialetto, cambiano codice di lingua per meglio spicciare, per meglio raccontare.

Non potrebbe essere altrimenti: affidarsi alla "lingua del cuore", come è stato felicemente definito il dialetto dagli studiosi. Negli androni, sulle scale riprese dall’alto, tra quei faldoni che ricordano le atmosfere di Tutti i nomi di Josè Saramago, infatti, transitano storie, prima ancora persone. La lingua non tradisce: “mio marito…”, “mia sorella…”, “mio padre…”. Silvia Bellotti trova le tracce d'interi alberi di famiglia, in un’ora circa di esplorazione: non è una semplice timbrata di cartellino, anche tra gli alberi di trenta piani c’è tanto vissuto.

(in alto e all'interno: dettagli di fotogrammi dal film Aperti al pubblico)

Antonio Maiorino