Salute
Eutanasia: diritto o delitto?
LECCE, 6 FEBBRAIO 2014 - Ogniqualvolta che una persona, affetta da una malattia incurabile, chiede un aiuto attivo per porre fine alle proprie sofferenze, viene riproposto il dibattito relativo all’eutanasia. È un argomento molto sentito tra la gente, un tema che suscita coinvolgimento emotivo molto forte, sia per i pazienti che per i loro familiari.
Sono sempre più frequenti le conferenze di cittadini che propongono la legalizzazione del suicidio assistito. Ma gli interrogativi sono tanti. Esiste un diritto dei malati per morire con dignità? Abbiamo il diritto di scegliere che la vita umana rimanga tale fino al suo termine? In che modo stringersi accanto alle persone e sostenerle per far sì che l’ultima tappa della vita sia conforme alla condizione umana? [MORE]
Il progresso delle cure palliative rappresenta uno sviluppo significativo ma, tuttavia, tanto ancora rimane da fare per affrontare la sofferenza e l’accanimento terapeutico per non morire nella solitudine. Da più parti si pongono le questioni di umanità, di compassione, di solidarietà, anche se comunque sussiste il rispetto della legge che attualmente vieta la sospensione delle terapie. Ma non ci si può sempre appellare alla legge per risolvere tutti i problemi. E allora quale aiuto promuovere affinché i malati in fase terminale possano continuare a vivere nelle migliori condizioni possibili?
A questa serie di interrogativi abbiamo cercato di fornire delle risposte, ascoltando alcuni autorevoli pareri. «Sull’eutanasia per ogni medico ci sono sensibilità assolutamente diverse – afferma Luigi Pepe, presidente provinciale dell’Ordine dei Medici – anche se comunque si parla di un argomento che crea una grandissima sofferenza. Per quanto mi riguarda personalmente, da vecchio medico condotto, vedo con molto piacere il paziente che si aggrappa alla vita e io tendo sempre ad allungare l’esistenza anche se di poco. Anche perché per un paziente che decide di morire non si può escludere che anche all’ultimo secondo non possa ripensarci. È chiaro che ci sono anche casi di estrema sofferenza e a quel punto io al limite mi asterrei dalla cura. Certamente ognuno ha facoltà di decidere della sua salute se è cosciente e se lo fa dopo attenta riflessione, ma non possiamo dire che il paziente non abbia il diritto di porre fine alla propria esistenza. Se dovesse servirsi di un professionista per porre in essere il suo desiderio – conclude Pepe – è chiaro che a quel punto subentrano tantissime remore, preoccupazioni e stati d’animo conflittuali, talvolta anche gravi, tra l’interesse che il paziente ritiene sia legittimo e quello che il medico pensa in quel momento».
Di parere leggermente diverso è un altro medico, Antonio Palumbo, vicepresidente regionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani: «Fondamento dell’operato di ogni medico è quanto sancito nel Codice Deontologico Medico vigente che afferma che in nessun caso, anche se richiesto dal paziente, il medico porrà in essere trattamenti diretti a menomare l’integrità psichica e fisica del paziente e, a maggior ragione, azioni capaci di abbreviare la vita del malato. In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta e pervenute alla fase terminale il medico, nel rispetto della volontà del paziente, potrà limitare la sua opera all’assistenza morale ed alla terapia atta a risparmiare inutile sofferenza, fornendogli i trattamenti appropriati e conservando la qualità di una vita che si spegne. Per questo, ogni medico è custode e servitore della vita dell’uomo e della sua dignità, condanna l’eutanasia che, mascherata da un velo di umana pietà, contraddice il principio fondamentale di indisponibilità del diritto alla vita: non esiste nell’individuo il diritto a decidere della propria morte, non esiste il diritto a una scelta tra la vita e la morte. La “morte buona” è, a tutti gli effetti, un crimine contro la vita della persona e una abdicazione della scienza medica. Chiediamoci allora se non sia più giusto parlare di diritto di essere curato e assistito con tutti i mezzi ordinari disponibili senza ricorrere ad accanimento terapeutico. Il diritto di morire con dignità – chiarisce Palumbo – non coincide affatto con il supposto diritto all’eutanasia, la quale è invece un comportamento essenzialmente individualistico e di ribellione; è una scorciatoia che non dà senso alcuno al morire, né conferisce dignità al morente: un malato che chiede di morire forse vuole solamente chiudere con un mondo che lo ha abbandonato».
E c’è anche chi ribadisce con forza il “no” all’eutanasia, sostenendo il diritto a morire con dignità. «La fine della vita fisica dell’uomo – dichiara don Francesco Coluccia, consulente ecclesiastico nazionale dell’Associazione Cattolica Operatori Sanitari – come qualsiasi altra azione umana, coinvolge il soggetto morale in tutto e per tutto, interpella la sua libertà, chiama in causa la propria dignità, esige ed evoca la sua responsabilità singola e sociale. Ora, la vita è un diritto indisponibile, anzi il più importante fra tutti i diritti indisponibili. Ciò significa che non solo non si può decidere della vita di un altro uomo innocente, ma nemmeno è lecito disporre della propria. L’eutanasia, sia quando è frutto di un’azione sia quando è frutto di un’omissione dolosa, comporta sempre il coinvolgimento di una terza persona, che si offre di togliere la vita a un’altra. Dunque, anche in presenza del consenso del malato, siamo sempre di fronte all’uccisione di un essere innocente. La legalizzazione dell’omicidio del consenziente è un trauma giuridico che sconvolge radicalmente l’intera impalcatura dello stato di diritto. Poiché l’eutanasia è invocata per porre fine a “sofferenze insopportabili”, spesso sono pazienti incapaci di intendere e di volere a subirle e i veri interessati sono i parenti. Ma se uccidere per pietà è ritenuto “il bene del paziente”, non si vede perché fermarsi di fronte alla mancanza del parere di chi non è in grado di darlo. Guardiamo in faccia la realtà! Il fatto è che i malati cronici costano. Dunque, in un ordinamento in cui fosse accolto il principio che uccidere un innocente è lecito se fatto per motivi pietosi, sarebbe perfettamente coerente attendersi che si ponga fine alle vite ritenute insignificanti. E questo in nome dell’interesse della società e della necessità di usare le poche risorse a favore di pazienti curabili. Così facendo – spiega Coluccia – la legalizzazione trasformerebbe radicalmente la missione del medico. Allora cosa fare? Anzitutto opporsi alla legalizzazione di qualsiasi forma di eutanasia, che invece di risolvere il problema, uccide chi lo ha. Promuovere e vivere la carità verso i sofferenti, cominciando da quelli vicini a noi. Promuovere la solidarietà verso le loro famiglie, che spesso sono sole nel sostenere i malati e in condizioni non facili. Ma soprattutto occorre promuovere e richiedere ai dirigenti della società civile, la necessaria attenzione e cura per i deboli e per i sofferenti incentivando risorse umane con una adeguata e corretta allocazione delle risorse economiche per la fase terminale della vita».
Di certo, con tutta l’umana compassione e solidarietà, si potrebbero capire quei malati che si trovano in situazioni fuori dalla consuetudine. Tali situazioni non rientrano, per ora, nell’ambito della legge, anche se quest’ultima, però, le dovrebbe quantomeno prendere in esame per il rispetto dovuto ai malati. In queste situazioni, ci potrebbe essere la possibilità e il diritto, legalmente riconosciuto, di porre fine alla propria vita.
Ma ciò non vuol dire che si può perdere la volontà di vivere e che ci si catapulti, in maniera sconsiderata, per usufruire di questa possibilità. Si può invece ipotizzare che, consapevoli di questa possibilità, molti saranno incoraggiati, ancora di più, a vivere, anche se in condizioni difficili, non perché costretti, bensì per decisione e scelta personali. In tutta libertà, sceglierebbero così di continuare a vivere, dando un senso più profondo e un valore veramente personale a quest’ultima tappa della vita.
(foto: http://www.libertaepersona.org)
Massimo Alligri