Editoriale

Eternit, disastro ambientale e morti in nome del profitto

TORINO, 14 FEBBRAIO 2012 - Una sentenza storica. È stata definita in questo modo la sentenza con la quale il tribunale di Torino ha condannato a 16 anni di carcere i due amministratori delegati della Eternit, il magnate svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Jean Louis De Cartier De Marchienne (i quali hanno fatto sapere tramite i loro avvocati che presenteranno appello). Di fatto, lo è. È una sentenza storica non solo per la portata del processo, per il numero di vittime coinvolte, per l'entità della pena, per i risarcimenti riconosciuti alle parti, perché afferma giuridicamente la colpa di aver provocato un disastro ambientale e perché ha riconosciuto il dolo dei vertici aziendali, cioè il loro aver agito nonostante la consapevolezza dei rischi per la salute collegati alla lavorazione dell'amianto, senza fare sostanzialmente nulla per eliminare o diminuire tali rischi. Disastro ambientale doloso e omissione dolosa di cautele antinfortunistiche. Questi sono i reati per i quali gli imputati sono stati riconosciuti colpevoli. Tradotto in termini correnti, suona più o meno in questo modo: i più alti responsabili delle quattro fabbriche coinvolte in questo processo – Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera e Bagnoli. Per gli ultimi due stabilimenti non è stata comminata alcuna pena poiché i reati sono ormai prescritti - non hanno fatto nulla per evitare malattie e morti non solo dei lavoratori, ma anche di tutte quelle persone che, pur non lavorando all'interno degli stabilimenti, per diverse ragioni sono venute a contatto con le fibre di amianto, ammalandosi prevalentemente di mesotelioma pleurico e asbestosi.[MORE]

È, però, una sentenza storica anche perché afferma un principio, ben evidenziato da Paolo Liedholm, figlio ventitreenne di una delle vittime dell'amianto, il quale, intervistato dal quotidiano La Repubblica, ha espresso le seguenti parole: «quelle persone in nome del profitto hanno avvelenato un territorio. Dobbiamo impedire che succeda ancora». Avvelenare il territorio significa avvelenare, far ammalare e morire chi quel territorio lo vive. Morti non per fatalità, per accidente, ma in nome del profitto.

Le fabbriche Eternit (così come altre aziende connesse a vario titolo con la lavorazione dell'amianto) sono state attive per decenni in Italia. Lo stabilimento di Casale Monferrato, ad esempio, è stato aperto per quasi ottant'anni, dal 1907 al 1986 e ancora oggi, a più di venticinque anni dalla chiusura, in quel territorio si continua a morire per gli effetti dell'amianto (solo l'anno scorso sono 58 i morti per mesotelioma) e altri morti ci saranno per chissà ancora quanti anni. L'amianto ha ucciso e continua a farlo tutt'oggi in particolar modo in tutte quelle zone cosiddette “a rischio”, cioè quelle aree nelle quali sono concentrate le attività industriali collegate all'amianto. Ma non solo. Impiegato per moltissimi anni nel settore dei trasporti e nell'edilizia, è diffuso praticamente in ogni area del Paese. Si è calcolato che circa 20 milioni di italiani (cioè uno su tre) sono esposti al rischio. Il ministro dell'ambiente Corrado Clini, commentando la sentenza di condanna ai vertici della Eternit, pur esprimendo soddisfazione per l'esito del processo, si è detto preoccupato perché, di fatto, non si ha ancora «una mappatura completa dei siti che devono essere risanati per l'inquinamento da amianto». Dopo 26 anni dall'approvazione della legge che lo ha messo al bando e dopo almeno 50 anni dalla scoperta del nesso tra amianto e tumori. Tutte le attività collegate all'amianto (estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione) sono vietate in Italia dal 1992, anno nel quale fu approvata - con imbarazzante e colpevole ritardo se si considera che il rapporto causa/effetto tra amianto e mesotelioma pleurico era già stato provato fin dagli anni Sessanta - la famosa legge 257, che contiene, appunto le “Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto”. L'amianto uccide e continuerà a farlo per anni. La comunità scientifica, infatti, ha previsto per il 2020 il picco di tumori collegati all'amianto.

Morti in nome del profitto, o per lo meno per beneficio di chi dalle attività industriali collegate all'amianto ha effettivamente tratto profitto, cioè le aziende e i proprietari di esse. Morti, però anche in nome del ricatto. Il ricatto per cui è stato ritenuto lecito barattare il diritto alla salute di migliaia di persone in cambio di posti di lavoro. Ed è un ricatto che, a ben vedere, non cessa di esistere. Un ricatto per il quale viene ancora ritenuto lecito ignorare, cancellare e talvolta schernire i dei diritti dei lavoratori, e il diritto alla salute è solo uno di essi, in cambio della “concessione” di posti di lavoro e, ovviamente, in nome del profitto. «Dobbiamo impedire che succeda ancora», dice Lihedolm in quella frase sopra riportata riferendosi alle stragi da amianto. Che questa sentenza storica sia un punto di riferimento non solo per gli altri processi in corso in Italia, ma anche per il resto del mondo, è auspicio di tutti. Sono ancora troppi i Paesi del mondo nei quali si continua ad utilizzare l'amianto (Cina, Brasile, India e Russia su tutti, solo per citare i più grandi) e l'obiettivo comune deve essere «impedire che si consumino altre stragi», per usare le parole di Nicola Pondrano, ex operaio Eternit ora responsabile della Camera del Lavoro di Casale Monferrato, che da anni si batte contro l'amianto. Che questa sentenza, e con essa le migliaia di storie di morti per colpa dell'amianto, insegni anche a riaffermare la centralità dei diritti delle persone – lavoratori e non – sul profitto, sembra invece molto più arduo.

(foto da www.afeva.it Associazione Familiari Vittime Amianto)

Serena Casu