Enrico Fenzi, una vita tra lotta armata e Petrarca
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GENOVA, 26 GENNAIO 2016 - C’è un momento nella vita di Enrico Fenzi, professore universitario quarantenne che alla fine degli anni Settanta scegli la lotta armata, in cui lui si accorge che “la strada di ritorno era sbarrata: in mezzo ormai c’era Rossa”, il sindacalista ucciso dalla colonna genovese delle BR alla quale apparteneva. C’erano i suicidi dell’ingenuo, semplice e fiducioso “compagno” Berardi; del vecchio e ammalato “avvocato dei brigatisti” Edoardo Arnaldi: “Qualcosa aveva finito di spezzarsi, senza rimedio”, confessa Fenzi, “quasi che aver partecipato al ferimento (di Carlo Castellano, dirigente dell’Ansaldo ndr) avesse segnato un punto di arrivo, oltre il quale c’era il vuoto di una lunga caduta”. [MORE]
Forse, dopo dieci anni passati in carcere Enrico Fenzi, 76 anni, veronese di nascita e genovese d’adozione, ha sentito il bisogno di trovare il significato di una vita drasticamente rivoluzionata dalla decisione di entrare nelle Brigate Rosse. E l’unico modo possibile per lui era attraverso la letteratura. Perché l’altra metà della sua vita Fenzi l’ha dedicata a Petrarca, ai manoscritti, ai saggi e alle opere filologiche (è autore di un’edizione del De Vulgari eloquentia di Dante e di numerosi saggi sul Petrarca). È nato così Armi e bagagli. Un diario delle Brigate Rosse, uscito il libreria per la prima volta nel 1987 e oggi ristampato dalla casa editrice Egg, con un’intervista all’autore di Paolo Piras.
Non una semplice autobiografia ma un romanzo vero e proprio. E il lettore questo lo capisce dai primi capitoli. Sono i migliori del libro: c’è l’attenzione dello scrittore al particolare dietro le descrizioni dei labirintici vecchi carrugi genovesi, degli appartamenti chiusi e fumosi dove si incontrano i brigatisti o della nebbia di una fredda mattina invernale trascorsa a distribuire volantini in fabbrica; nel modo in cui tratteggia i personaggi di Lucio e Valentino, i due brigatisti che attraggono e infine cooptano il protagonista nel partito armato o come ricorda l’atmosfera cupa e sospettosa del carcere a causa delle esecuzioni in stile mafioso dei brigatisti “traditori”. Quando invece Fenzi dimette i panni di narratore e torna a essere brigatista la scrittura perde il suo ritmo e il lettore resta impigliato nelle minuziose diatribe con la colonna milanese Walter Alasia o nella ricostruzione della grande spaccatura in carcere tra le Br “dentro” e le Br “fuori”.
Del resto la letteratura non lo ha mai abbandonato: l’attività di studioso e quella di dirigente clandestino delle BR sono arrivate addirittura a intrecciarsi in una vita sempre più sprofondata nell’assurdo (durante la latitanza troverà il tempo di finire l’introduzione a un’opera di Dante per Utet) e solo così Fenzi poteva tentare di districare la matassa, tentare di scoprire il perché, di razionalizzare la tragedia personale e collettiva degli anni di piombo. Altrimenti sarebbe rimasto solo il silenzio, nella solitudine di quella “gabbia che con tanta ostinazione e cecità ci eravamo costruiti per anni – e poco importa che fosse stata una cecità generosa, un’ostinata illusione”.
Tiziano Rugi