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"Effetti collaterali" di Steven Soderbergh, pillole di cinema ansiolitico
Effetti collaterali di Steven Soderbergh - la recensione. Per la serie: il sospetto. Ossia, made in Hitchcock, con d’incroci pericolosi di verità e finzione, di travestimenti mutevoli di vittime e carnefici, di pedine che diventano giocatori. Ma con tanto di effetti collaterali pienamente soderberghiani: dalle malattie del capitalismo (The girlfriend experience) alla denuncia (Erik Brockovich, Traffic); dal “chi controlla il controllore” (Contagion) all’incastro tra sesso, bugie e videotape dei vari Oceans con Clooney e co. Il risultato è una inguaribile dipendenza dal film, fino allo scioglimento finale: come di una pasticca nell’acqua, fluida ed effervescente. [MORE]
New York, si aprono i cancelli della prigione: Martin (Channing Tatum) può riabbracciare la moglie Emily (Rooney Mara). Ma per quest’ultima, i cancelli del paradiso si sono chiusi molto tempo prima, quando la reclusione del marito aveva significato depressione, esaurimento e – soprattutto – addio alla bella vita. Ora lui cerca di rimettersi in carreggiata, lei di rimettersi in sesto con gli intrugli sponsorizzati dal dott. Jonathan Banks (Jude Law). Questi psicofarmaci à la page non le fanno voltar pagina, anzi: l’effetto collaterale è un sonnambulismo omicida, per cui una mattina la moglie si sveglia vedova dopo essere stata assassina. Ma non ricorda nulla. Di chi è la colpa? Ma soprattutto: chi ci guadagna?
Che l’estro di Soderbergh si canalizzi spesso nella capacità di far interagire il sistemico con lo psicologico, le malattie della Nazione con la patologica emotività dei personaggi, emerge soprattutto nell’apparente ristagno delle prime battute, con piani sequenza vellutati sulla tavola rotonda di psichiatri, medici, rappresentanti farmaceutici: una Wall Street costruita con mattoncini di Prozac e Zoloft. Ma c’è soprattutto, collegato a questo background da sinapsi che promettono elettricità, il fascio di nervi di Emily, una Rooney Mara i cui umori deflagrano con lo schianto dell’auto contro la parete di una garage nel tentativo di suicidio che imprime la prima accelerazione alla storia. A questo punto, la donna sembra diventare una marionetta, in balia della propria psicosi non meno che dei suoi curatori: un’identità sospesa, né chiaramente vittima né scopertamente carnefice, da cui deriva la suspense del film tutto. Perché lo stesso Jude Law\dr. Banks, incerto sugli scrupoli dei suoi villains, oscilla tra salvatore, capro espiatorio, detective e congiuratore, in una schizofrenia drammatica e sfuggente, in cui il buonismo anestetizza la bugia e la pillola dell’ambizione stampa un falso sorriso a coscienze a disagio.
L’effetto è di un transfert dalla confusione mentale al saliscendi della Borsa, considerando le implicazioni economiche e gli interessi speculativi in ballo: è una terapia di gruppo senza terapeuta, un casinò in cui giammai le jeux sont fait, dacché ogni giocatore, nel proprio casino morale, rilancia: il piacente psicologo e padre di famiglia Jude Law a suon di ricette mediche e documenti burocratici; la vedova nera Rooney Mara in un rimpiattino tra finta depressione ed instabile, sensuale lucidità; la professionale, untuosa ex psichiatra di quest’ultima, interpretata da Catherine Zeta-Jones, sfoggia sorrisi imperturbabili e cela, in un lungo bluff, calcoli spietati. Sono tutti gambler costretti ad azzardare, ad affrontare scelte rischiose per guarirsi dalla malattia di un sistema: o per diventare portatori sani di quella malattia dell’ambizione, dell’agio economico, del potere di vita e di morte.
Ed implacabile è il montaggio, specie quando il “gioco” si fa più serrato, spostandosi da un tavolo all’altro: dal tribunale, alla clinica psichiatrica; dai nidi domestici, agli studi medici spersonalizzanti. Non è un cinema a tesi; questa pulizia stilistica, ad orologeria come la chiamata di un croupier, si era vista di recente in un altro film dal retrogusto alla Hitchcock, specie nell’aspetto dell’uomo comune invischiato nell’intrigo e costretto a diventare intrigante: ne L’uomo nell’ombra di Roman Polanski.
Un unico dubbio assale lo spettatore coinvolto nel gioco della regia: rispetto alla prima parte, la seconda è un’accelerazione emozionante o una frettolosa, ansiosa voglia di arrivare alla fine? Questione di strategie dello sguardo. Le carte – il cast, il soggetto – sono buone, così come il mazziere Soderbergh: ma l’effetto collaterale di un thriller così serrato è quello di essere (troppo?) freddamente calcolato, così come un cinema con tante domande si trascina le controindicazioni del lasciare l’ansia di mancate risposte. Fate il vostro gioco (di nervi).
Titolo originale: Side Effects
Regia: Steven Soderbergh
Interpreti: Rooney Mara, Channing Tatum, Jude Law, Catherine Zeta-Jones, Vinessa Shaw, David Costabile, Polly Draper, Laila Robins, Ashlie Atkinson
Origine: USA, 2013
Distribuzione: M2 Pictures
Durata: 101'
Antonio Maiorino
Critico d'arte e di cinema
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