#Oscar2015: che cinema ci lasciano e perchè Boyhood stecca la maturità
InfoOggi Cinema Campania

#Oscar2015: che cinema ci lasciano e perchè Boyhood stecca la maturità

martedì 24 febbraio, 2015

OSCAR 2015, L'EDITORIALE. Birdman il vincitore, merito della sua struttura per strati che parla di Hollywood e Broadway, anche alla Hollywood ed alla Broadway. Ordinario nel racconto, Boyhood era troppo folle nel senso ultimo. Grand Budapest Hotel e Whiplash, il cinema sa immaginare e montare storie.

BIRDMAN, L'UCCELLO SENZA PIUME DI CRISTALLO -  Miglior film, miglior regia, migliore sceneggiatura originale: quando la statuetta ha un peso diverso. Ma che non zavorra, anzi: Birdman di Alejandro Inarritu ha spiccato il volo agli Academy Awards proprio coi tre riconoscimenti più “pesanti” , a cui si aggiunge quello tecnico ma non meno di lustro della fotografia, elevandosi nella city of angels a dominatore della stagione cinematografica. C’è troppo di cinema, e troppo di meta-cinema, perché il film non piacesse a chi doveva giudicarlo; c’era troppo di cinema, e basta, perché, invece, il film sfondasse anche al Festival di Venezia, dove forse la tendenza è quella a lambiccarsi un po’ di più (come altrove) ed ha vinto un cervellotico piccione. C’era, cioè, oltre alla fittissima, nervosa rete di rimandi tra realtà e finzione, tra cinema e teatro, tra sudore e social network, anche l’apprezzabile sforzo di un film capace d’intrigare col dietro le quinte, di fare cinema che racconta fuori dalla scena e sopra la realtà, negli spazi sur-reali, a costo di piroettare coi falsi finali e con la battutina acida nel flusso logorroico. Insomma: qualcuno – tipo Inarritu – ogni tanto si ricorda che c’è anche lo spettatore (più o meno medio) e fa i film a sfoglia di cipolla, a più strati: chi assomiglia al critico ferocemente parodiato in Birdman, sguazzerà nello sguazzabile, chi semplicemente vorrà leggere, per illustrazioni fascinosamente deformanti, la storia d’un attore e dei suoi tic privati e pubblici, troverà in Birdman uno di quei film che appassiona senza inaridirsi in trattati sapientoidi o cristallizzarsi nelle sterilità di certo cinema d'essaiEssere umani è assai.

BOYHOOD, DA BERLINO CON FURORE - Della propria vena sperimentale, Boyhood ha fatto addirittura una ragione artistica, restando comunque nell’alveo della vita più che del linguaggio astratto: più esistenza che stile, in soldoni. Una storia che si rilancia e si riavvolge, che monta ogni tranche de vie senza smarrire la cornice, né il sentimento vitale. Curioso che anch’esso venisse da un festival, ma più in pompa magna: Premio della Regia a Berlino 2014, una di quelle kermesse così compromessa con l’offside dello schermo che quest’anno, pare, dopo la vittoria di Panahi e di Larrain il tam tam critico ha decretato: “si conferma un festival politico”. A noi sembra che la foto della giovane nipote del regista iraniano che riceve il premio e asciuga la lacrimuccia sia uno spot per il cinema, per la sua libertà, per l’inestinguibile passione di raccontare che ha ogni matto quando si mette in testa di realizzare quel prodotto complesso che si chiama “film”.

È un sentimento, passatecelo, che ci ricorda la follia dei 12 anni di riprese di Boyhood, la sua sfida ai confini del tempo ed ai confini della realtà: dove si piazza ad intervalli regolari la macchina da presa, per veder crescere, ogni anno, i suoi attori. Senza trucco, al massimo con l’inganno calcolato dell'onesta finzione cinematografica, quella che finge le storie più vicine a noi e si concede anche di finire senza finire, per lasciar spazio alla vita. È vero, era troppo per gli Academy Awards. [MORE]

GRAND BUDAPEST HOTEL, UNIVERSI A 5 STELLE - Fintissimo, ma va bene così, è Grand Budapest Hotel. Il cinema, appunto, non ha regole, porta altrove: la prossimità delle nostre storie, o l’invenzione più pura, immaginosa, sfrenata. Ha vinto la nostra Milena Canonero – ed è un caso che abbia trionfato per i migliori costumi? Non per un film che si è accaparrato anche i riconoscimenti per la migliore scenografia e per il miglior trucco. Eppure, quello di Wes Anderson non lo diremmo “il film in costume” classicamente inteso: è puro sguardo che si amplia, una macchina del tempo e dello spazio, una mappa che solo il cinema più inventivo sa tracciare – a patto che abbia anche l’auto-ironia sufficiente per sapersi raccontare e far capire in ogni frame: “sì, è assolutamente inventato. E ci piace finire in un mondo così!”.

WHIPLASH, IL CINEMA CHE MONTA - L’altro tri-titolato è stato Whiplash ed anche in questo caso una delle categorie della statuetta la conta lunga: quella del montaggio. Ad un certo punto del film di Damien Chazelle, il giovane protagonista, un batterista che ancora deve farsene di calli, sta per lasciare una stanza, frustrato. La macchina da presa lo segue di spalle. Il ragazzo ambia idea e torna indietro. Se il montaggio avesse staccato nel mezzo, Whiplash sarebbe stato un film da sei e mezzo. Non lo fa, la scena è in piano sequenza. È una decisione da film da otto. Così come lo stacco, rapido e ficcante, su uno sguardo: chi ha visto il film, avrà inteso quale, chi non lo ha fatto, si prepari a sorbire Whiplash come un vortice che tutto trascina, tensione e liquidi organici, in un unico mulinello, fino a confluire in quello sguardo, in quei buchi orbitali.

FELICI E CONTENTINI - Per il resto, Eddie Redmayne vince un premio annunciato e poco coraggioso, di fronte al quale sarebbe delittuoso, ad ogni modo, avanzare rimostranze. Ne La teoria del tutto, si trasforma come un bravo attora sa trasformarsi. Lasciando da parte Keaton, che forse meritava più di tutti ma non poteva far fare il pieno a Birdman, a dire il vero Benedict Cumberbatch di The Imitation Game aveva fatto qualcosa di simile nei panni di un altro genio, Alan Turing, persino con più sottigliezza. Al film di Morten Tyldum, che sembrava l'American Hustle della situazione (cioè, full di nomination e bluff ai premi), viene dato il contentino immeritato della migliore sceneggiatura non originale, che meritava piuttosto American Sniper. A parte il montaggio sonoro, quest'ultimo non ha fatto rumore, ma era già tanto essere stato dato per outsider fino all'ultimo minuto. Erano tre film su tre geni\illuminati\eroi, solidi ed inclini ad ispirare. Sono rimasti a bocca asciutta.  Ai film "ben fatti e basta", lli Oscar 2015 hanno preferito un cinema capace di osare sia quando c'è da ripensare se stesso (Birdman), sia quando c'è da inventare nuove strade per vecchi territori (Grand Budapest Hotel), sia quando sa scegliere senza compromessi il come delle proprie storie (Whiplash). Boyhood? Faceva tutte e tre le cose, non ditelo all'industria.


Qui la lista dei vincitori


 Antonio Maiorino


Autore
https://www.infooggi.it - Il Diritto Di Sapere

Entra nel nostro Canale Telegram!

Ricevi tutte le notizie in tempo reale direttamente sul tuo smartphone!

Esplora la categoria
InfoOggi Cinema.