Cultura e Spettacolo
Duramadre, spettacolo di Fibre Parallele: la favola amara della vita tra grottesco e follia
BARI, 21 NOVEMBRE 2011 - Il pubblico prende posto mentre in sala l’atmosfera si tinge di grottesco. Sul palco tre corpi nudi impacchettati, una scena lattiginosa avvolta da una nebbia vischiosa e pesante. Sullo sfondo il fragore del vento. E poi nel buio “c’era una madre” recita una voce in sordina “la grande madre col ventre stanco e duro”. E’ una “favola che fa paura, è aridità e gelo, è una favola che sembra raccontare di un futuro senza futuro”, lo spettacolo di Fibre Parallele andato in scena sabato 19 e domenica 20 novembre al Teatro Kismet di Bari.[MORE]
È uno spettacolo che non si dimentica, un sogno inquieto che al risveglio ti lascia un sapore amaro in bocca, un incubo fatto al mattino quando è più difficile dimenticare.
Ed è proprio un sogno vissuto e poi raccontato ad incoronare la scena iniziale, smontato infine da un grido di disprezzo della protagonista, la Duramadre, interpretata da Licia Lanera. “A me dovete dire grazie, che sono la titolare!” urla dall’alto della sua postazione di sarta ai tre figli, dai corpi nudi e bianchi, “chess je la legge me”.
Dalle tenebre alla luce, la scena di tinge di bianco, un bianco asettico, fastidioso nel quale spicca la figura imponente della “madre-matrona” in nero, intenta a disciplinare la trama della stoffa e il tessuto rigido e grezzo, come se fosse l’allegoria della vita.
Poi un suono di tromba, e il quadretto scenico diventa simile ad una esecuzione di morte. I tre uomini bianchi sono davanti al pubblico in fila uno accanto all’altro, impauriti, sottomessi al volere della donna che bofonchiando disprezzi in un gergo colorito dialettale, misura i loro corpi. L’atmosfera si fa surreale, i corpi sembrano fantocci in balia del volere di un essere superiore, che li manovra, li gira e rivolta, gli infila spilli per fissare le pieghe del tessuto scuro.
Poi, una mano si intravede dalla finestra di una piccola palafitta bianca, chiusa a chiave. Sembra uno spiraglio di luce nello spettacolo, la speranza di un possibile collegamento tra l’interno, il destino soggiogato dei tre figli, e l’esterno, il mondo reale. Dentro, segregata c’è “la primera mia che mai deve uscire”, l’unica figlia femmina anche lei nella sua interpretazione, al confine tra manichino parlante e donna.
E’ uno spettacolo, quello di Fibre Parallele, che fa parlare di sé. Un misto di follia e rigore tecnico, in grado senza dubbio di destare “stupore”. E’ la storia di una terra che vomita e si ribella raccontata attraverso gli occhi di una vecchiaccia sfacciata e volgare, forte come una iena, ma anche afflitta da un dolore interno che solo alcuni sono in grado di percepire. Il suo personaggio è al confine tra educatrice severa e generale crudele e spietato che strappa il cuore dal petto di uno dei tre figli.
Nel bianco di un racconto che procede nel tempo per immagini più che per narrazione verbale, i fiori che coprono il cadavere della madre ormai esanime sono l’unica macchia espressionistica di colore. Liberati dalla propria placenta, i figli maturati, entrano nella dura vita. Adesso cosa li aspetterà? Saranno davvero liberi o torneranno ad una condizione di prigionia inconsapevole?
E’ la crisi nostra e di tutto ciò che c’è intorno. Uno spettacolo criticato, odiato e amato che non lascia andar via lo spettatore senza regalargli un pizzico di sarcastica amarezza.
Gli applausi finali del pubblico in sala, hanno chiuso realmente questo viaggio, mentre negli occhi lucidi degli attori, la commozione umana era più viva che mai.
Roberta Lamaddalena
Duramadre
Di: Riccardo Spagnulo
Con: Mino Decataldo, Licia Lanera, Marialuisa Longo, Simone Scibilia, Riccardo Spagnulo
Voce narrante: Rossana Marangelli
Luci: Giuseppe Dentamaro
Realizzazione scene: Mimmo e Michele Miolli
Sartoria: Modesta Pece
Assistenti alla regia: Elio Colasanto, Rossana Marangelli
Regia, spazio, scene: Licia Lanera
Produzione: Fibre Parallele