Interviste

"Due passi sono": quando "il limite diviene pretesto per il suo superamento"

MESSINA, 19 GIUGNO 2015 – Nasce e si forma nella città dello Stretto la giovane “coppia artistica” composta da Giuseppe Carullo e Cristiana Minasi, fondatori dell’omonima compagnia teatrale.[MORE]

Cristiana Minasi, collaboratrice in qualità di pedagoga con le Accademie Nazionali di Teatro per la conduzione del laboratorio “L’attore e l’oggetto: prove semiserie d’attore/autore”, è laureata in Giurisprudenza e specializzata in Criminologia e Psicologia Giuridica, ed ha intrapreso insieme a Giuseppe Carullo, allievo della Scuola di Teatro Teatès diretta da Michele Perriera, nonché attore in diversi spettacoli, la strada che porterà i due a calcare svariati palcoscenici italiani.

La Compagnia siciliana, che ha fatto del “limite” la propria cifra stilistica, ha basato su questo concetto una Trilogia che argomenta di Giustizia, Arte e Amore, partendo dall’analisi di opere del filosofo greco Platone quali il Simposio, l’Eutifrone e lo Ione. Oltre a “Due passi sono” (vincitore del Premio Scenario per Ustica 2011, del Premio In-Box 2012 e del Premio Internazionale T. Pomodoro 2013), altri due spettacoli di grande successo compongono la Trilogia: “T/Empio – critica della ragion giusta” (vincitore di Teatri del Sacro 2013) e “Conferenza tragicheffimera – sui concetti ingannevoli dell’arte” (vincitore del Premio Fringe Napoli Teatro Festival 2013).

In particolare in “Due passi sono” i protagonisti, costretti da un’esperienza personale ad arrivare vicini ad un limite, si spingono fino a sfidare la realtà stessa dell’esserci che li porterà ad una forma di condivisione e di racconto basato sulla semplicità. Proprio su questo concetto i due “piccoli artisti” lavorano continuamente, in un mondo quasi astratto fatto di “piccole cose”, riducendo al minimo nel tentativo di comunicare al massimo. Dalla “genuinità” alla vita e alle sue sovrastrutture, dal “piccolo” all’universale, in un percorso di conoscenza che parla, seppur in seconda istanza, d’amore, inteso come sentimento che appartiene all’umanità stessa.

Una nuova produzione sta, inoltre, impegnando in questi giorni la Compagnia Carullo-Minasi, ovvero la rappresentazione del "De revolutionibus - sulla miseria del genere umano" con 
testi originali di Leopardi tratti dalle Operette Morali (Il Copernico, Galantuomo e Mondo). Lo spettacolo è andato in scena per la prima volta il 13 e il 14 giugno scorso presso il Real Collegio di Lucca e ha visto la rappresentazione di un’opera che tratta della “piccolezza” dell’uomo di fronte all’universo e alla conseguente coscienza della miseria umana.

Intervista a Cristiana Minasi: quando “la consapevolezza del limite diviene pretesto per il suo superamento”

Cristiana Minasi il vostro è senza dubbio un “teatro di comunicazione”, in cui, come lei stessa ha sottolineato, non si ambisce a dare delle risposte ma piuttosto a porre delle domande. Quale messaggio vorrebbe che il vostro teatro trasmettesse?

“La forza e l’incanto del Teatro sta nell’occasione, unica nel suo genere, di essere strumento di comunicazione, nel suo più antico e sincero significato etimologico del cum-munis, quale messa insieme di doni reciproci. Il teatro non esiste senza pensare di potere regalare la propria piccolezza ed umanità alla presenza di chi, con la medesima generosità, decide di regalare il proprio tempo ed il proprio sguardo ad un’azione che diviene teatrale solo se diviene comune.
Riteniamo che il teatro, primieramente inteso come atto politico e sociale, non debba né mai possa, per sua stessa funzione e missione, ambire a delle risposte ma a determinare gli estremi d’interrogativi comuni, legati alla precarietà dell’esistenza che tutti inevitabilmente ci accomuna. Imparando dagli studi su Platone, le nostre opere celebrano il processare, il dubbio e dunque, forse, l’esistenza volta a finire con l’incertezza più grande: la morte.
Non considerandoci conoscitori d’alcuna verità, non ci facciamo promotori d’alcun messaggio, solo al limite d’una poetica volta alla sottrazione per la riscoperta dell’uomo nella sua essenza prima e più vera, nel suo vero essere, senza gli orpelli e gli inganni cui siamo ammaestrati dalla società. Giochiamo col teatro per smascherare ogni omologazione e proclamare la diversità come valore. Con i nostri piccoli atti teatrali, dichiariamo la nostra rivoluzione: non ci sforziamo di essere molto diversi da quello che siamo, crediamo che sia la diversità a rendere uguali gli uomini, a renderli tutti sostanzialmente e non piuttosto solo formalmente liberi!”


Il limite visto non come un impedimento bensì come uno sprone ad andare oltre, a superare le barriere, fino ad arrivare alla voglia di celebrare non un lieto fine, nello spettacolo come nella vita, ma un “lieto inizio”. Da cosa nasce il desiderio di sovvertire questo concetto?

“Riteniamo che prima che artisti si sia persone e che solo tramite un confronto sincero con la propria miseria e precarietà ci si possa avvicinare ai temi dell’arte, dunque della vita. Intendiamo il limite quale risorsa drammaturgico creativa per la definizione di qualsivoglia atto d’arte: la consapevolezza del limite diviene pretesto per il suo superamento. La presa di coscienza dell’assurdo dell’esistenza e della contingenza non vogliamo scada in una disperazione paralizzante, ma tentiamo di elevarla all’affermazione della vita, nella sua complessità. Il limite diventa così risorsa propulsiva, atto politico-democratico: mentre le cose sono ciò che sono, l’uomo è ciò che progetta di essere, perennemente in gioco nell’alternativa tra il conquistarsi pienamente ed il perdersi definitivamente, per cui il limite con cui ci confrontiamo diventa soglia, spartiacque tra l’una e l’altra condizione”.


In che modo una “piccola storia” come la vostra può arrivare ad assumere un significato universale?


“Due passi sono” - il primo dei nostri spettacoli - è nato da noi, per noi, con noi, ma con la grande speranza ed illusione di una riconoscibilità per tutti. Ciò che ha costituito la sua forza per la possibile universale riconoscibilità è stata non certo un'idea, ma la forte necessità di far qualcosa di concreto, di riscattare la voglia e la forza di essere vivi. Volevamo, tramite il limite in cui ci siamo trovati immersi per uno stato di momentanea difficoltà fisica di Giuseppe, raccontare l'indescrivibile forza di cui è portatore l'uomo. Più che per concetti, abbiamo avuto l'intuizione di operare per giochi di relazione, d'improvvisazione scenica che poi hanno costituito la base di elaborazione del testo. Parlavamo di una quotidianità, che poi era quella che al momento ci capitava di vivere, caratterizzata da una miriade di prescrizioni e divieti, che rendevano la possibile guarigione di Pe assolutamente invivibile. Lo spettacolo è sì, per certi aspetti, autobiografico ma la scommessa più grande è stata quella di trasformare la vicenda della malattia in pretesto per potere raccontare un qualcosa di più ampio, che certo non doveva ridursi a mera vicenda personale. Abbiamo trasformato la convalescenza in qualcosa di estremamente divertente, nascostamente invertendo i ruoli, e rendendo colei che avrebbe dovuto aiutare la vera ammalata da dirigere verso la giusta rotta del fuori e della libertà. Abbiamo proceduto per sottrazione: più si è tolto, più ci è stato restituito. In tal senso, nonostante si fosse partiti dal tema della malattia, della quotidianità patologizzata in vista di un’ipotetica salvezza fatta di prescrizioni e negazioni, lo spettacolo è misteriosamente - quasi per opposizione - approdato ai temi dell’amore, della creazione, della libertà, della conoscenza, del potere desiderare nonostante l’apparente impossibilità. Nelle varie fasi di definizione della scena, al livello orizzontale della vita/non vita dei due protagonisti, si è reso necessario aggiungere una linea verticale “filosofica/clandestina” che creasse un congiungimento con le vicende dell’ essere umano.
Traendo spunto dall’immagine della scala infinita del Simposio di Platone, il nostro testo ha passato in rassegna - frammento per frammento, scalino per scalino - piccoli ma infiniti varchi di luce, molecole di polvere di stelle tentando di volere dare luogo, forma, diritto e giustezza all’aspirare ad un percorso di conoscenza condiviso. Amore non è vicenda personale tra due, sia pure formalmente appaia come tale, ma è vicenda universale che deve attenere poeticamente ciascun uomo nella sua completezza, nella ricerca di quella verità essenziale fatta d’infinito desiderio di conoscenza.
Il nostro è un dialogo dalla struttura ludica volto alla ricerca di una possibile ascesa, nella direzione di un’immortale via di uscita.
“Due passi sono” è un inno alla semplicità, vuole glorificare la vita e lo fa parlando del desiderio. Ma figlio di questo spettacolo non è il desiderio dell’effimero, della cruda materia ma il desiderio fatto di valore, di quel valore unico che è la vita.
Amore è creazione: ci son mille modi di creare, bisogna a ciò educarsi, bisogna trarre insegnamento dalla vita per giustificare la vita stessa, di ciascuno, per tutti”.


Gli ultimi “due passi” vi hanno portati alla rappresentazione del "De revolutionibus - sulla miseria del genere umano", con testi originali di Leopardi tratti dalle Operette Morali. Com’è nata questa nuova produzione e quali riflessioni mira a far sorgere?

“L’opera è nata dallo stimolo datoci da un regista che, dopo avere visto i nostri due spettacoli (Due passi sono e T/Empio) a Roma, grato e felice dell’incontro, ci ha regalato le Operette Morali, invitandoci a leggere con particolare attenzione “Il Copernico” riconoscendo - nella struttura dialogica, nell’ironia e nell’assurdo di cui la stessa si fa portatrice - molteplici elementi di equivalenza con la nostra modalità di lavoro. Preso il consiglio al balzo, ci siamo dunque confrontati con questo grande Maestro - spesso vittima di retaggio scolastico - scoprendo tramite attenta analisi e lavoro sul testo elementi quale il tema del teatro, o meglio, della rappresentazione quale motore di svolta per una migliore intesa del significato più profondo insito nelle poetica di Leopardi. Abbiamo ritrovato, sorpresi, un Leopardi pieno di speranza, pronto a regalare all’uomo la carta della sua vittoria dinnanzi alla precarietà di ciò che egli inevitabilmente è: la forza dell’immaginazione quale unico strumento per partecipare delle Meraviglie del Creato, Teatro Vero di cui l’uomo è partecipe primo; in secondo luogo abbiamo ritrovato vari elementi di assonanza con Pirandello, nella considerazione delle molteplici finzioni e teatralizzazioni che l’uomo costruisce per sé e contro di sé.
Leopardi, con la sua “Piccola opera” - nelle insolite vesti di Drammaturgo Demiurgo - fa “Grande opera”: ricostruisce l’Ordine dell’Universo, ben drammatizzando intorno allo sbriciolamento dell’orgoglio umano, ormai da ritenersi infondato dinnanzi a Sua Eccellenza Sole, stufa di girare intorno “ad un granellino di sabbia” per far luce a “quattro animaluzzi”. Il genere umano, così, scacciato dal centro dell’universo e spostato con la sua piccola sfera alla periferia del sistema solare assiste, cosciente, alla propria “Apocalisse”. A voce d’un inerme Copernico, si profetizzano e stigmatizzano le miserie d’un re spodestato: l’uomo. Noi così abbiamo giocato a chiamarla “Operetta infelice e, per questo, morale” sperando di riuscire a raccontare la possibile rivoluzione del nuovo mirare dell’uomo nella profondità della propria miseria. Così dalla minuscola e misera Terra tentiamo di riflettere sul precipitare verso il baratro delle non conosciute Luminose Meraviglie, nell’infinito buio dipinto di stelle, nella profondità e nell’abisso di ciò che rimane una speranza, l’esser parte di un’ Infinita Meraviglia: il Creato.
Affrontata la prima Operetta, continuando nel percorso di ricerca, ci siamo domandati se Leopardi, al di là delle fantasticherie cosmogoniche, fosse riuscito a ritrovare negli uomini questa capacità d’abbandono e ristoro nell’immaginazione, ma abbiamo riconosciuto in molteplici Opere, oltre che nel suo ultimo Canto “La ginestra”, il testamento d’ogni perdita di speranza nel genere umano, incapace -come piuttosto la natura - di partecipare dell’immenso e solo capace di annientarsi da sé in prepotenze sociali. Abbiamo dunque ribaltato -agganciandoci al titolo da noi scelto per l’intera nostra opera: “De revolutionibus” (tratto dalla prima parte dell’originale opera del “vero” Copernico che proprio si chiamava De revolutionibus orbium coelestium) - l’esito potenzialmente positivo agognato da Leopardi di una rivoluzione dell’immaginazione, nell’esito poco consolatorio dell’involuzione attribuibile paradossalmente al progresso. Leopardi così, in uno scherzo d’impazienza e rassegnazione, “conscio che gli uomini non si contenteranno di tenersi per quello che sono” propone il triste scenario della “civiltà”, dei suoi legami e vizi nel ridicolo risultato d’un’ Operetta immorale e, per questo, miseramente felice. Nel dialogo leopardiano “Galantuomo e Mondo” il Mondo spiega all’ingenuo Galantuomo, il quale ha sempre coltivato la virtù e frequentato la bottega della Natura e della Poesia, come ci si deve comportare se si vuole servirlo con successo. In tempi di progresso, lì dove il Mondo “non può far altro che camminare a ritroso”, l’Uomo deve appigliarsi a “tutto il contrario di ciò che gli parrebbe naturale, compiendo ogni rovescio” e divenendo così “penitente di ogni virtù”. Il Mondo, travestito da Signorina Civiltà tutta vizi e capricci, divorato ogni fondale d’immaginazione, in cui potere sperare di precipitare definisce gli estremi d’un freddo quadro di miseria, dove “tutti gli uomini sono come tante uova”, dove è proibito ogni segno di vera vita. Qui la rivoluzione procede al contrario e diventa involuzione, poiché il ridimensionamento dell’uomo porta seco una conseguenza negativa, da qui la menzogna utilitaristica.

“E gli uomini vollero le tenebre piuttosto che la luce” Giov. 3, 19 ad introduzione della Ginestra.

Insomma, rivoluzione e miseria sono parole che riempiamo d’una natura ambigua e paradossale, nell’unica certezza di volerci aggrappare al teatro, fatto di piccole e povere cose, ma capace di grandissime riflessioni sul potere dell’uomo di ribellarsi e dunque ritrovarsi. Passeggiando con il Maestro della più amara e saggia ironia, ci disperdiamo giocando con scenari che danno largo all’immaginazione, sperando di far scivolare il pubblico nella finestra di questo “oltre” che ancora in vita ci rimane e che può, con i suoi scherzi, renderci partecipi rivoluzionari del Sentimento del Sublime”.

Per maggiori informazioni sulla Compagnia Carullo-Minasi e sui prossimi spettacoli visita il sito internet.

(Immagine in copertina di Anita Bonfiglioli; in photogallery immagini di Valentina Salvini, Elisabetta Saija, Anita Bonfiglioli, Manuela Giusto, Marco Caselli Nirmal e Luca Anello. Tutte le immagini sono state gentilmente concesse da Cristiana Minasi)

Katia Portovenero