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David Bowie: arte globale

È passato qualche giorno ormai, lo sappiamo. Se n'è parlato abbondantemente. Ognuno s'è sentito in dovere di dire (a tutta ragione) la propria sul Duca Bianco: qualche distinguo eccellente (Guccini in primis), tanta celebrazione, fin troppa secondo alcuni. Un fenomeno mediatico, anche oltre la morte. Ma non è soltanto tale e non solo celebrazione mediatica postuma può rimanere. A piacere o dispiacere, David Bowie è stato tanto, soprattutto un artista poliedrico.
 
Time may change me but I can’t trace time, da Changes (1971): David Bowie s’è regalato il sottotitolo d’una carriera artistica dai mille suoni, specchio di fantasie musicali che hanno trovato vita e goduto di ogni variazione d’umore dell’artista, di ogni evoluzione, ordine e contrordine culturale, che hanno affermato, se ve ne fosse ancora necessità, dell’incomprensibile-comprensibile pienezza dell’arte rock, non solo dannatamente ricca di sonorità speciali ma show tout-cort: il palcoscenico centro dell’universo-cultura, dove i temi s’intrecciano e le espressioni assumono senso globale. Dalla ricerca estetica pura alla introspezione filosofica-letteraria: lo showman tutt’uno con la sua arte. Che trovi radici in questo aspetto il sentirsi in tanti grati a David Bowie ora che è spirato, ma non da ora, da quando, a detta di ogni autorevole esponente d’ognuna, Red Orb ha ispirato generi musicali i più variegati. Che sia stata una fortuna, per sé e per un mondo ad alto rischio stereotipo come quello dello star system, che la giovane età artistica sia stata un crocevia di tendenze intorno ed influenze nella sua formamentis artistica? Siamo nel 1967. David Bowie, primo album del singer, e Deram Anthology (dove appare London Boys) sono specchio d’inquietudine crescente, continua lotta fra frange folk-dylaniane e psichedeliche-californiane d’un animo che non trova la sua dimensione. Appariva già allora Space Oddity. Che diverrà capolavoro proprio quando, due anni più tardi, un arrangiamento psichedelico la consegnerà come spettacolo variegato di sonorità evocanti emozioni contrastanti. Non solo una canzone: fortunata invenzione d’un rock fantascientifico. E inoltre: l’album Space Oddity, successivo al riuscito singolo omonimo, regala Cygnet Committee, assaggio di ciò che sarà la rivoluzione punk.

[MORE]Gli anni ‘70 rappresentano la consacrazione nella fase più hard-soul-rock della carriera di Bowie: The Man who sold the World è equilibrio instabile tra scariche adrenaliche ad alto contenuto sonoro e un artista mai sazio di stupire, fin dalla copertina in abiti femminili: il Bowie glam rock. La nascita poi degli Spider from Mars, gruppo con cui darà vita ai suoi più fortunati album dei ’70, sarà determinante per Hunky Dory, del 1971, contenente Changes. L’intero album, fra i più riusciti secondo la critica, è un mix del Bowie che è stato e che sempre riproporrà (The Bewlay brothers richiama suoni folk psichedelici, Song for Dylan), che è e che sempre sarà (Changes, Oh you pretty things e Quicksand, portate ricche di inquietudine).

Con suono e inquietudine, il terzo elemento chiave è il personaggio: per qualcuno ai limiti del trash, ma in realtà l’alieno di The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spider from Mars regala fama e rivela lo spessore di un artista completo. Undici tracce mix di arrangiamenti ricercatamente esagerati con archi e melodie drammatiche contrapposti a chitarre dalle corde vivaci ed un Bowie, alla fine di Five Years urlante, sempre sbeffeggiante: il destino della star, di Ziggy che vive la parabola sorpresa-successo-cannibalizzazione dei fan trova riscontro nei suoni in crescendo coincidenti con il canto via via più hard di Bowie.

Sul palcoscenico, dal vivo, non mancherà mai la mimica sessuale, a voler punire la moralizzazione ipocrita degli anni: la trasgressione libera spiegata attraverso gli abiti, il trucco, le movenze. Ma non solo: dichiarerà di dipendere solo dalle azioni che compirà, come un essere mutevole senza rapporti con ciò che fu, e come esso la sua sessualità, trasgressiva proprio perché mutevole. Si dichiarerà bisessuale, diverrà icona gay, mai abbraccerà una fede politica. Troppo mutevole lui, il Mondo (ha un’ossessione per il futuro, i suoi testi avveniristico-futuristico-fantascientifici permangono in ogni disco in questa fase), il rock e i suoi fan: con la chioma orange ed una saetta rossa che squarcia il suo viso nell’inconfondibile copertina di Aladdin Sane (1973), in cui riproporrà l’apoteosi del tema glam, morirà, alla fine del tour, simbolicamente sul palco, Ziggy Stardust.

Il nuovo approdo di David Bowie è in un’America che ha terribilmente paura di un futuro ipertecnologico: la scenografia del tour promozionale di Diamonds Dogs (1974) è fra grattacielo, navicelle spaziali e cani-uomo, simbolo di uomini divenuti succubi troppo tech ed eccessivamente celebrativo. Ispirato da 1984 di George Orwell, contiene Rebel Rebel, fra le più famose hit di Bowie, e introduce ambienti funky.

Young Americans del 1975 chiude la fase glam definitivamente, introducendo la storia che porterà alla nascita del mito del Duca Bianco. Dallo stile funky-black, incensato specie dalla stampa che lo definì “il primo disco di soul nero inciso da un musicista bianco”, in effetti spiazzò i fan abituati ai suoni aspri e spigolosi del rock post-Space Oddity: fu inciso in un periodo in cui Bowie era attratto dalle sonorità R&B. Contiene Fame (“fama non è il tuo cervello è solo la fiamma che brucia il tuo cambiamento per mantenerti pazzo”, quasi un rigetto verso l’effimero del mondo dello showbiz) che nasce con la benedizione di John Lennon.

È in un periodo ‘macabro’ della sua esistenza che prende vita Station to Station: in preda a fobie spirituali, paranoico, Bowie mostra, quale sembianza della freddezza, il personaggio distaccato del Duca Bianco, che nel tour si esibirà in un ambiente-palco altrettanto spoglio rispetto alle scenografie esplosive a cui aveva abituato. Le sonorità, stavolta, appaiono definitivamente maturate in uno stile soul afro music, squarciato da intensi, quanto rigorosamente melodici, richiami alla musica teutonica. Sarà proprio a Berlino che nascerà Heroes, il più riuscito della trilogia Low-Heroes-Lodger: sarà quella in cui, più di tutti, è sensibile la collaborazione di Brian Eno. La title track è forse la più famosa canzone di David Bowie. Richiami avanguardisti tipici di musica synth tedesca, soliti nel nuovo personaggio del Duca Bianco, una chitarra che si accende e che regala uno sfondo musicale ideale alla straziante storia di due giovani innamorati separati dal Muro, narrata da un Bowie maturo anche nell’intensità vocale e nell’interpretazione. Ma tutto Heroes, a detta dei critici, rimarrà simbolo dell’arte bowiana. Ashes to Ashes è, invece, il brano simbolo di Scary Monster (and Super Creeps), il primo degli anni 80. Rappresenta l’ennesima svolta di Bowie che recuperava la volontà di creare il ‘personaggio’ dei primi dischi, dove resiste ancora un’anima rock. Ma sarà svolta vera quella che aprirà a Bowie le strade della pop-dance e, per molti, che lo introdusse poi ad un periodo di creatività poco entusiasmante. Let’s dance (1983) è l’esordio dinanzi ad una platea che non era stata fino a quel momento sua, quella del commerciale. L’effetto è uno svuotamento dei contenuti innovativi, tipici delle sonate avanguardiste e glam che l’avevano reso David Bowie. “Per la prima volta mi esibivo dinanzi un pubblico che non mi conosceva, ho abbandonato le sperimentazioni e abbracciato il lato commerciale” dirà. Tonight, dell’anno successivo, non sarà neppure ricordato come una delle sue migliori produzioni, certamente. In mezzo, il successo con i Queen e il singolo Under Pressure. Il talento è cristallino, ancora. Ma la creatività aveva bisogno di essere soggiogata dalla passione. E la passione andava riaccesa. L’esperienza heavy-metal con i Tim Machine era stato un buon viatico per riconciliare con il suo pubblico naturale e storico, sebbene la collaborazione con Gabrels poi non avesse prodotto alte sonorità. Il ritorno da solista è del 1993 con Black Tie White Noise: è il faro della sperimentazione a spingere David Bowie ad aprire a spinte jazz che si possono riscontrare nel disco, che si intrecciano alla sua tipicità rock e ad un refrain soul. Solo due anni dopo, con Outside e la nuova collaborazione con Eno, a Bowie è riconosciuta la vena dannatamente vincente: i testi tornano ad essere intensi, sebbene pessimistici; le sonorità ora ricche di sonorità elettroniche, frutto dell’esperienza dance, ma che si sposano perfettamente con l’arte di Eno, ora funk ora techno. Nel DNA di David Bowie rimane però la volontà di cercare un continuo cambiamento, una sempre nuova linfa diversa da quella conosciuta, che non basta più. Un cammino tortuoso di ritorni, di andate mai senza ritorno. Earthling è la sua risposta alla sedicente musica jungle, sonorità che impazzano quasi senza senso. E poi Hours (1999) che richiama atmosfere iniziali delle ballate dylaniane, con Heathen del 2002 ripercorre l’elettronico del periodo berlinese.

Una discografia a tappe alterne e ripetute, senza che mai il mito di David Bowie e i suoi personaggi scadessero. Sempre attuali e riproposti. Anche nel 2013, quando Bowie con The Next Day torna a scalare le classifiche della musica mondiale. La voglia c’è, il talento intatto. Mai scalfito dagli anni. Blackstar, contenuta nel disco omonimo del 2016, sembra assumere le forme d’un diario lungo quaranta anni e più di sperimentazione musicale. Tutto in un unico capolavoro, dal glam al jazz. E Lazarus, saltata alle cronache oggi come un anticipo di quel che sarebbe stato. Mai sazio di stupirsi. Capace di svelarsi, senza ipocrisie: “Il Rock è la più importante espressione artistica di questo secolo ma io amo anche creare i personaggi, la narrativa, gli scenari. Sono attratto da più direzioni e tenere tutto in equilibrio è maledettamente difficile”.