Editoriale
Dieci anni senza Pierangelo Bertoli. Una vita a muso duro
ROMA, 7 OTTOBRE 2012 - «Ricordo un episodio di quando ero bambino, avrò avuto dieci anni: durante una manifestazione in Piazza Garibaldi, qui a Sassuolo, a un certo punto mi si avvicina una donna anziana e tira fuori dieci lire. Mi fece l'elemosina, capito? Questo si intende per “pietismo”. Il posto di un handicappato, di un diverso, è nell'angolo della chiesa. E ogni cento lire che gli regali ti guadagni sette anni in meno in Purgatorio. In Italia la funzione dell'handicappato è quella di fare pietà. Se c'è una cosa ignobile a questo mondo è la pietà, che non assomiglia affatto alla pietas, ma piuttosto alla pena». Le parole sono di uno dei più grandi cantautori che questo paese abbia mai avuto la fortuna di poter ascoltare, nonché uno dei più sottovalutati: Pierangelo Bertoli.
Nel decennale della sua morte, avvenuta la notte tra il 6 e il 7 luglio 2002, abbiamo deciso di ricordarlo con le parole che lui stesso utilizzò raccontando uno degli aspetti della sua vita, la disabilità, durante un'intervista rilasciata a Domenico Mangiardi, poi confluita nei due libri biografici “Pierangelo Bertoli. I Certi Momenti” e “Pierangelo Bertoli. Un emiliano tragico non è un vero emiliano”. [MORE]
Se il posto di “un handicappato”, o comunque di “un diverso”, è quello di stare nell'angolo di una chiesa a chiedere l'elemosina per la presunta salvezza dell'anima e della coscienza altrui, possiamo essere certi del fatto che Bertoli questo posto non lo ha mai voluto, anzi, lo ha sempre duramente combattuto. Ne ha combattuto i presupposti, politici, religiosi e culturali, quelle insopportabili retoriche che vogliono che l'ultimo, il diverso, l'emarginato, lo sfruttato stiano al proprio posto, che essi non disturbino il tranquillo scorrere del mondo, che non intacchino lo status quo, che mantengano il proprio ruolo di ultimi nella società, accontentandosi dell'elemosina, affinché chi in quella società è ai primi posti possa continuare a mantenere i propri privilegi.
Una visione del mondo che il cantautore di Sassuolo, uomo dichiaratamente ed esplicitamente di sinistra, ha sempre rifiutato, combattendola con lo strumento che meglio sapeva adoperare, le canzoni. Con un linguaggio sempre schietto, sincero, lontano dagli artifici e spesso crudo, ha scritto e cantato veri e propri inni alla vita. Dalle canzoni di denuncia politica e sociale (Non vincono, Eppure soffia, Rosso colore, Italia d'oro, Il centro del fiume, Certi momenti, Ballata sul percorso, Varsavia) a quelle d'amore (Per dirti t'amo, Per te, Non ti sveglierò, La prima pioggia, A Bruna, Dal vero), tutte riflettono la voglia e l'invito a vivere la vita in tutta la sua interezza, ad affrontarla sempre “A muso duro”, per citare il titolo di quella che probabilmente può essere considerata la sua canzone-manifesto. Un amore profondo e passionale per la vita, un'esistenza trascorsa sempre dalla parte degli ultimi, degli sfruttati, degli oppressi.
Quasi trent'anni di carriera, venti album e diverse raccolte, oltre millecinquecento concerti. Sarebbe impossibile elencare tutte le tematiche affrontate in una così prolifica produzione artistica. Dai racconti di vita quotidiana alle canzoni in dialetto sassolese, dalle storie d'amore ai canti di lotta, dalle canzoni politiche alle denunce sociali, dalle invettive contro il potere religioso alle favole e alle ninnananne, dalla rabbia alla dolcezza.
A dieci anni dalla sua morte, a chi scrive non resta altro da fare che ringraziare questo uomo straordinario per la bellezza della sua poesia e per aver contribuito ad insegnarle da che parte stare.
Serena Casu