Cronaca

"Diaz" quotidiane. Viaggio nelle "carceri per sans papiers"

LAMPEDUSA, 6 MAGGIO 2012 – «Non aver elencato, almeno nei titoli di coda del film Diaz, i nomi dei funzionari di pubblica sicurezza processati e condannati, mi ha fatto ricordare il rapporto finale sui desaparecidos in Argentina, presentato all'opinione pubblica senza l'allegato con i nomi dei responsabili dei crimini, e un proverbio: la vipera morde chi è scalzo», scriveva su Il Manifesto, due giorni fa Luis Mario Borri, in merito al film di Daniele Vicari che – da quel che si legge in giro – è ben altra cosa da quella denuncia sociale che il sottotitolo - “don't clean up this blood”, “non pulire questo sangue” - preannunciava. Ma da Genova 2001 di tempo ne è passato. Perché, allora, “addomesticare” un film che avrebbe potuto invece essere ben altra cosa?

Da Genova 2001, comunque, le “Diaz” si sono moltiplicate. Oggi si chiamano Centri di Identificazione ed Espulsione, luoghi nei quali i migranti entrano solo perché scappati da paesi in guerra o da paesi “instabili”, dove non c'è il tempo di fare domanda scritta per avere i documenti in regola. Anche perché spesso il posto in cui farla neanche c'è. [MORE]
Arrivano in Italia e vengono reclusi in questi centri, dove dalla scorsa estate si può rimanere rinchiusi anche un anno e mezzo senza aver commesso alcun reato penale (al massimo si tratta di un illecito amministrativo). E mentre si aspetta ci si ritrova in mezzo a pestaggi non denunciati per paura – quando non vengono direttamente investiti dai mezzi delle forze dell'ordine come avvenuto al Centro di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano - psicofarmaci, sedativi dietro sbarre alte sette metri e filo spinato. È stato registrato più di un caso in cui a finire in questi centri siano ragazzi nati e cresciuti in Italia da genitori stranieri, in quanto l'Italia dà la cittadinanza a ragazzi nati da genitori italiani all'estero, che magari con il nostro paese non hanno il minimo contatto (ma che molto aiutano i governi con il voto delle “circoscrizioni estere”) trattando i cosiddetti “G2”, i figli di genitori non italiani nati però nel nostro territorio, come veri e propri “stranieri nella loro nazione”, come cantava nel 2006 Amir, rapper di padre egiziano ma romano di nascita e accento.
Una situazione denunciata sia dalla commissione Diritti Umani del Senato, che lamenta anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento, e dall'Organizzazione delle Nazioni Unite. Non proprio quelle che si definirebbero “organizzazioni estremistiche”.
Tutto, peraltro, viene fatto senza che ai giornalisti venga permesso di entrare.

Twitter e il paese reale. «Sconcertata dal metodo usato per questo rimpatrio», «Neanche a Guantanamo abbiamo assistito a soprusi del genere», «Bisogna punire i responsabili di questi comportamenti inammissibili», sono i “tweet” - rispettivamente – di Livia Turco del Partito Democratico (che è sempre bene ricordare essere l'autrice, insieme all'attuale presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, della legge che ha introdotto i Centri di Permanenza Temporanea – oggi di Identificazione ed Espulsione – nel nostro ordinamento), di Stefano Pedica dell'Italia dei Valori e di Flavia Perina di Futuro e Libertà.
Lo “sconcerto” che “neanche a Guantanamo” arrivava a seguito della pubblicazione dell'immagine con cui si mostrava che i migranti rimpatriati non hanno trattamenti di favore in top class – quelli, solitamente, vengono destinati a chi va alle manifestazioni sportive in auto blu – ma viaggiano con la bocca tappata da un pezzo di scotch e i polsi chiusi in fascette di plastica.
«Faccio una sola semplice domanda ai signori parlamentari indignati dallo scotch sui volti dei migranti: come diavolo pensate che vengano effettuate le espulsioni di persone che nono vogliono per niente al mondo tornare a casa (supposto che una casa la abbiano?)», scriveva pochi giorni fa Andrea Segre su terrelibere.org, dando ai nostri parlamentari il “benvenuti nel mondo reale”. «La questione è molto semplice» - continua Segre, regista di documentari come “Il sangue verde”, “Come un uomo sulla terra” o “Mare chiuso” - «per fermare la cosiddetta immigrazione clandestina bisogna usare la forza, perché gli esseri umani che vengono fermati, espulsi, respinti sono in viaggio per necessità e non vogliono, spesso non possono tornare indietro. E quando si deve far fare a qualcuno quello che non vuole e non può si usa la violenza. Il piccolo problema è che queste persone non sono criminali, ma esseri umani in cerca di sopravvivenza. Brutto usare la violenza con gli ultimi, vero? C'è da indignarsi, davvero».

Quanto costa un'espulsione? Cento milioni di euro in cinque anni. Tanto è costata la “macchina dei rimpatri”. «E ancora di più si prevede di spenderne nei prossimi tre anni», come scriveva pochi giorni fa Raffaella Cosentino su terrelibere.org.
«Per ogni cittadino straniero rimpatriato», continua l'articolo, «lo stato italiano paga cinque biglietti aerei: quello dello straniero e quelli di andata e ritorno per i due agenti che lo scortano. Il dato è contenuto nel rapporto della Commissione diritti umani del senato su carceri e centri di trattenimento per migranti senza permesso di soggiorno».
Per il volo di rimpatrio coatto – quello cioè organizzato quando il paese di nascita dello straniero senza documenti accetta di farlo tornare – vi è la necessità di utilizzare una scorta sugli aerei numerosa, che attualmente interessa in tutto circa seicento operatori delle forze dell'ordine, sottoposti a formazione specifica e continui aggiornamenti, per una spesa annua – come evidenziato dal Fondo rimpatri dell'Unione europea – che si aggira intorno ai dieci milioni di euro.

In più vanno sommati i costi di gestione dei Centri, dove – come riferito da una relazione tecnica del centro studi della Camera del 2008 – ci vogliono settantottomila euro solo per un posto letto (Centro di Identificazione ed Espulsione di Torino) e dei servizi, pari a 18,6 milioni di euro solo per lo scorso anno, come si legge nell'articolo già indicato. Altri diciotto milioni, poi, sono stati destinati dal governo Monti a gennaio per la riapertura o la ristrutturazione del centro di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, e Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza.
Costi che andranno ad aumentare – tra le altre cose – anche a seguito della decisione di triplicare il tempo massimo di detenzione nei centri, passato da sei mesi ad un anno e mezzo, passato dai diciassette milioni della finanziaria 2011 ai quaranta annui previsti per il periodo 2012-2014, senza contare che il tutto viene gestito, fin dal 2002, in piena “fase emergenziale”. E sappiamo che quando qualcosa viene fatto “in emergenza”, in questo paese, c'è sempre qualcuno che ci guadagna più degli altri.

Chiudo, ritornando là dove avevo iniziato questo articolo: dopo lo “sconcerto” che “neanche a Guantanamo” quante leggi per la fine dei respingimenti e la chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione portano la firma di chi si scandalizza, ma solo su twitter?

(foto: acmos.net)
Andrea Intonti