Estero

Denied Access. Viaggio nel purgatorio delle città-satellite

ATENE (GRECIA), 12 OTTOBRE 2012 - 1881 agenti a difesa del confine sul rio Evros, in aggiunta alle pattuglie già presenti e, dal luglio 2011, un muro di 12,5 chilometri alto tre metri concepito sul modello della rete che separa le enclavi di Ceuta e Melilla (territorio marocchino) dal territorio spagnolo e che ha portato ad una diminuzione degli ingressi di circa l'84%. È quello che si sono trovati davanti i migranti che lo scorso 2 agosto hanno tentato di oltrepassare il confine naturale che separa la Grecia dalla Turchia o, se la si vuole leggere in altri termini, la Fortezza Europa dall'esterno. 
Eccola la “porta d'Europa”. È da qui e non da Lampedusa – come erroneamente fanno credere gli organi di informazione italiani – che, dal 2005, passa più dell'80 per cento dei migranti senza documenti che attraverso l'Europa meridionale tentano di arrivare nei paesi del nord, in un viaggio che per l'eccessiva distanza e per le stringenti leggi del cosiddetto “Dublino II” significa per i migranti rimanere segregati in un purgatorio con Atene come capitale.[MORE]

La Commissione Europea non esclude l'eventualità di finanziare progetti per rinforzare ancor di più le politiche anti-migranti delegate alla Grecia, in aggiunta ai 676 milioni di euro stanziati da Parlamento e Consiglio attraverso un programma annuale co-finanziato per 10 milioni di euro da Grecia e Fondo europeo per i rimpatri che dovrebbe portare al rimpatrio di 7.000 migranti.

Turchia: sala d'attesa per l'Europa. La Turchia rappresenta una vera e propria “anticamera”. Sia perché è da qui che i migranti passano per arrivare in Grecia sia perché la Turchia si trova – geograficamente e politicamente – a metà strada tra l'Europa e l'esterno. L'esterno, a queste latitudini, si chiama Iran. Tra i due paesi, una barriera naturale lunga 454 chilometri la cui altezza varia tra i 2.500 ai 3.000 metri e la temperatura tra i 4° ed i 6° e le cui cime sono continuamente attraversate da merci e persone in quanto, nonostante la strada accidentata ed il clima spesso improponibile, questo rimane il passaggio più corto, più sicuro e soprattutto meno controllato tra l'Asia e l'Europa.

Urmia, Shahpur e Maku – nella regione iraniana dell'Azarbaijan occidentale (da non confondere con la repubblica dell'Azerbaigian che si trova nella regione caucasica) – sono le tre città dove i vengono raggruppati i migranti e da cui, a bordo di automobili o camion, ci si avvicina ai villaggi transfrontalieri dai quali si tenterà il salto in Turchia. Condizioni climatiche, fisiche e rischio di essere catturati dalle forze dell'ordine decidono quando sarà possibile arrivare a Yüksekova, Van e Doğubeyazıt, le tre città turche che fanno da catalizzatore e respingente per i migranti. Secondo la İnsan Hakları Derneği  (“Associazione per i diritti umani”, in turco) nel 2010 da queste zone – insieme ad olio, tessuti, zucchero, medicine e droga - sono passati migranti di 30 nazionalità, provenienti per lo più da Pakistan, Afghanistan, Iran, Turkmenistan, Myanmar e Cina.

Sulle montagne si cammina per lo più di notte, con il rischio di perdersi, essere attaccati dai lupi o morire di fame e freddo, come capitato ai 19 migranti i cui corpi sono stati ritrovati dalla polizia locale nella primavera del 2002 o i 7 recuperati nel marzo 2007, con il rischio che la polizia di frontiera – composta per lo più da iraniani – apra il fuoco indipendentemente se a passare sono contrabbandieri, guerriglieri o migranti. Per frenare ancor più i tentativi di passare da queste zone, nel 2009 le autorità turche hanno deciso di incrementare la sorveglianza con la creazione di un muro di calcestruzzo alto un metro e mezzo alla cui sommità sono state messe telecamere ad infrarossi e ben 162 postazioni di controllo, in media una ogni due chilometri.

«Ci vogliono 24 giorni per andare da Herat, in Afghanistan, a Van», ha raccontato una migrante afghana a MigrEurop (intervista che si trova nel dossier “En los confines de Europa. La externalización de los controles migratorios” scaricabile in francese o spagnolo), «Tre giorni dopo la nostra partenza arriviamo a Urumiye, dopodiché i trafficanti ci hanno portato a piedi in un villaggio vicino Selma. Siamo stati rinchiusi con 60 persone per 18 giorni in una piccola stalla fatiscente. Ci hanno dato un po' di pane e dello yogurt, e molta poca acqua. Siamo rimasti accovacciati tutto il tempo, con i piedi gonfi. Non avevamo posti dove riposare, quindi dormivamo molto poco. Era molto sporco, non ci potevamo lavare ed i contrabbandieri non ci facevano andare in bagno, così facevamo i nostri bisogni nello stesso posto in cui stavamo. Bussavamo alla porta per ore, ma i contrabbandieri non aprivano. Tutti i giorni arrivava gente nuova. Solo gli uomini soli andavano via, chi aveva famiglia doveva aspettare più tempo perché, con i bambini, il rischio di essere catturati diventa più alto. Ci abbiamo provato tre volte a passare, ma il fango e la neve ce l'hanno impedito. Siamo riusciti a passare una notte di dicembre, quando il clima era talmente rigido che una delle mie tre figlie, di tre anni, ha rischiato di morire asfissiata e solo l'intervento di un trafficante che l'ha rianimata ha permesso che vivesse.
Quando ci fermavamo, i trafficanti ci urlavano dietro come pazzi, minacciandoci che ci avrebbero lasciati in mano alla polizia se ci fermavamo. Abbiamo pagato 1.800 dollari per questo. Una volta passati dalla parte turca, hanno obbligato tutte le donne ad entrare in una casa per assicurarsi che non avessimo denaro nascosto. Qui c'era una donna che ci ha costrette a denudarci completamente, ci ha perquisite mentre ci soffiava il fumo delle sigarette in faccia. Una donna aveva una tasca ricavata nei suoi abiti dove aveva nascosto del denaro, la donna se n'è accorta e l'ha sgridata. Io ho tenuto i 100 dollari che avevo sempre in mano, e la donna non se n'è accorta. Il denaro è poi stato dato ai trafficanti, che hanno preso anche le sei donne. Non so cosa sia successo loro. Lo stesso è stato fatto agli uomini.
Prima di proseguire il viaggio, i due gruppi – uomini e donne – sono stati separati, spesso le donne sono state violentate. Noi non siamo stati separati solo perché io e mio marito ci siamo messi a gridare».

Quando vengono arrestati dalla gendarmeria – che in Turchia ha anche compiti di controllo delle frontiere – vengono prima interrogati e poi portati dinanzi ad un giudice, il quale chiede al/alla migrante il motivo dell'ingresso nel Paese. Se questa riguarda una richiesta di asilo, la stessa viene inviata all'Immigrazione che, a sua volta, dovrà inviarla al Ministero dell'Interno di Ankara. In un labirinto burocratico che per le/i richiedenti asilo significa stare negli yabancýlar misafýrhanesi, gli “alberghi per stranieri” come quello di Van, principale città turca lungo la frontiera con l'Iran ed una delle 28 “città-satellite” che costituiscono la peculiarità del sistema di controllo dei migranti turco.

Van, il confino. 60.000 abitanti popolano questa cittadina della regione kurda, a sud-est della Turchia, un centinaio di chilometri dall'Iran. Secondo le regole vigenti in Turchia, le ed i migranti non possono uscire, e sono obbligati a rimanere in un raggio di 40 chilometri dal presidio dell'Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (Acnur o Unhcr in inglese) e devono presentarsi ogni settimana – solitamente il mercoledì – davanti alla polizia di frontiera o negli uffici dell'agenzia Onu per firmare dei documenti.
Stando alle interviste realizzate da MigrEurop e presenti nel report già citato, le ed i migranti vengono male informati sulla loro condizione di detenzione de facto, che credono duri il tempo impiegato dal giudice per decidere in merito alla loro situazione e per questo è raro che i migranti tentino una qualche forma di integrazione – ad iniziare da quella linguistica. C'è chi, tra gli intervistati, è confinato a Van anche da otto anni e più (dal report, pag.24).
Il sistema delle città-satellite verrà presto sostituito da un sistema più consono agli “standard” europei. La città infatti partecipa a due progetti Twinnings (pagina 30 del report) che prevedono l'assistenza tecnica ai paesi candidati all'ingresso nell'Unione Europea nei quali uno degli obiettivi prevede l'omologazione della gestione dei migranti a quanto viene fatto nel resto dell'Unione, attraverso «la creazione di un sistema di detenzione, classificazione ed alloggio di richiedenti asilo e rifugiati». La versione turca dei Cie, dunque, è alle porte.
Sembra non dover essere modificato, invece, lo strano modo in cui sono state ratificate la Convenzione di Ginevra del 1951 ed il Protocollo sullo status de rifugiati del 1967  secondo il quale la Turchia può concedere asilo solo a cittadini membri di paesi facenti parte del Consiglio d'Europa ma che rappresentano solo una parte infinitesimale del totale dei richiedenti asilo.

Bisogna sottolineare, inoltre, come la condizione delle donne migranti sia ancor più grave rispetto a quella maschile, in quanto queste sono costrette a lavorare in nero – così come gli uomini – ma sono anche esposte ad una serie di strumentalizzazioni mediatiche (vere e proprie violenze di genere) che le descrivono come prostitute, così da esporle a violenze di qualunque tipo e che sfociano sovente in stupri non denunciati in quanto in zone come l'Iran o l'Afghanistan dalle quali queste donne provengono o nella stessa Van la perdita della verginità pre-matrimoniale comporta una delle più importanti stigmatizzazioni sociali. E poi, dice la polizia, molte donne inventano gli stupri per accelerare le pratiche di asilo.

Il gioco del...dubliners. Arrivati alla fine, quando i migranti sono riusciti a rimanere in Europa e trasferirsi in Germania, Gran Bretagna o in altri paesi del Nord – cui molti puntano fin dai primi momenti del viaggio – c'è il rischio di dover tornare indietro, ai confini della Fortezza. Come se fossero pedine del gioco dell'oca.

Un gioco che l'Europa ha racchiuso nella sigla “Dublino II”, il nome con cui è conosciuto il regolamento europeo sull'asilo politico e che rappresenta l'architrave portante di tutto il sistema di accoglienza, il quale prevede che la richiesta di asilo venga gestita dal paese membro nel quale al rifugiato sono state prese le impronte digitali. Ciò si traduce, nella maggior parte dei casi, in un ritorno verso la frontiera meridionale, la dove mancano le “garanzie di dignità umana” necessarie, come hanno scritto due avvocati tedeschi dopo aver toccato con mano la situazione italiana, portando ben quarantuno tribunali tedeschi ad emettere altrettante ordinanze volte a bloccare le espulsioni di richiedenti asilo verso il nostro paese.
C'è chi, per evitare il ritorno, decide di bruciarsi le impronte digitali, perdendo così qualunque legame con la propria identità.

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(foto: peaceculture.org)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/