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Del corpo migrante si fa lotteria. Il viaggio delle migranti tra Guatemala e Stati Uniti
NEI PRESSI DI CONTEPEC (STATO DI MICHOACÀN MESSICO), 23 SETTEMBRE 2012 - Il viaggio inizia per la maggior parte delle e dei migranti a Tecùn Umàn, in Guatemala. 3.000 chilometri a sud della destinazione finale.
A questo punto, all'altezza del rio Suchiate, per 10 pesos e sotto gli occhi della polizia di frontiera che sorveglia il ponte distante qualche centinaio di metri, un migliaio di migranti al giorno passano il confine a bordo di zattere di fortuna, formate da camere d'aria e tavole di legno per poi arrivare a Ciudad Hidalgo, nello stato del Chiapas, da dove passa la maggior parte dei migranti. Da qui, il primo degli innumerevoli viaggi in autobus con il quale, dopo poche ore, si arriva a Tapachula, la città più meridionale del Messico e città chiave nei rapporti commerciali con il Guatemala. È lungo questa linea, che da Tecùn Umàn porta a Tapachula attraverso Ciudad Hidalgo, Cacahuatán o Huixtla che si iniziano a registrare i primi abbandoni, o le prime desaparizioni.
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Tapachula, vita da fichera. La loro compagnia si compra 65 pesos alla volta, il prezzo di una fiche o di una birra. Niente birra significa niente compagnia, anche di natura sessuale.
È così che si ragiona nel mondo delle ficheras, le ragazze che animano le notti nelle zone di tolleranza del Messico. Honduregne, guatemalteche, nicaraguensi; pochissime le messicane. Tutte, comunque, prive di documenti. Dopo aver accettato l'idea di essere stuprate durante il viaggio, la paura principale per loro non è costituita da clienti violenti – a tenerli lontani ci pensano i membri dei cartelli – ma dall'Immigrazione, lo spauracchio con il quale i gestori di questi locali soggiogano le ragazze. È anche per questo che le denunce sono ridotte al minimo, «sono ragazze innocenti, senza educazione, che non sanno come denunciare e sono facili da minacciare» dice Flores.[MORE]
“Chiamare l'Immigrazione” significa tornare in situazioni impossibili da sostenere come quella di Érika [nome di fantasia, ndr], scappata dall'Honduras a 14 anni, dopo due gemelli avuti da uno stupro e nove anni passati in strada a vendere legna e pesce. Se non vendeva tutto, l'attendevano i cavi elettrici con i quali veniva picchiata dalla donna a cui la madre l'aveva affidata.
La tratta – che è una cosa diversa dalla scelta di prostituirsi “nel pieno possesso delle proprie facoltà” - è poi favorita anche dalla burocrazia dei paesi di origine delle vittime, che siano quelli centroamericani o quelli africani. O, per meglio dire, dall'assenza di burocrazia. Molte vittime, infatti, vengono da paesi nei quali non esistono atti di nascita, e questo favorisce qualsiasi forma di mercificazione del loro corpo, da quello per sfruttamento sessuale e lavorativo all'uso dei minori come falchi o muli per i cartelli della droga fino al traffico di organi. In molti casi, ha evidenziato Arun Kumar Acharya dell'Istituto d'Indagine Sociale dell'Università Autonoma di Nuevo León durante una conferenza tenutasi sul tema agli inizi di settembre, le donne vittime di sfruttamento sessuale non trovano nessuna alternativa per poter uscire da quel mondo – per colpa, evidente, della miopia istituzionale, nonostante in Messico sia stata fatta una “legge generale contro la tratta” – venendo spostate da una zona all'altra del Paese, rendendo praticamente impossibile riconoscere casi di sfruttamento.
Per chi è costretto a lavorare in questi bordelli, dopo un po' arriva l'abitudine, ed il corpo – così come il sesso – perde qualsiasi forma di “proprietà”, diventando un non-luogo, seppur abitato, per dirla con l'antropologo francese Marc Augé.
Da Tapachula alla prossima tappa del viaggio migrante – Arriaga, sempre in territorio chapaneco – mancano 250 chilometri, che i migranti percorrono per lo più in autobus, scendendo e salendo almeno cinque volte (tanti quanti sono i posti di blocco istituiti dal 2005, da quando cioè un uragano ha bloccato la via dei treni, che ora si prendono più su.
È proprio ad una di queste fermate, prima di arrivare al posto di blocco di El Hueyate, 45 chilometri a nord di Tapachula che si entra nell'inferno.
Attraversando l'Inferno. La Arrocera, nel municipio di Huixtla, ancora territorio chiapaneco, un nome che pur indicando solo i pochi ettari del vecchio deposito di riso dal quale prende il nome nell'immaginario migrante costituisce una zona di 262 chilometri di cammino. Nell'immaginario migrante, inoltre, La Arrocera è diventato uno dei tanti nomi con cui chiamare l'Inferno.
Questo è infatti il punto più pericoloso di tutti i 3.000 chilometri di viaggio.
Gli aggressori, spesso autoctoni o lavoratori di quella zona muniti del machete che usano come strumento di lavoro, nel corso degli anni si sono accaniti contro i migranti proprio per il loro status di “temporaneità”, convinti che – essendo questi di passaggio – i danni siano ridotti al minimo, come effettivamente succede.
I pochi assalitori arrestati vengono spesso inviati al carcere di El Amate, il più grande centro di reclusione del Chiapas sul quale lo Stato non ha però alcuna giurisdizione. A comandare sono i narcos, che chiedono il pizzo ai nuovi arrivati e non permettono agli agenti né ad altra autorità diversa dalla loro di entrare nelle sezioni delle celle. La manovalanza – “scassapagliare”, per dirla con Pippo Fava – è servita su un piatto d'argento.
Il governo dello Stato del Chiapas ha deciso di muoversi solo due anni fa, nonostante le ormai decennali denunce delle organizzazioni della società civile.
Nel 2009 i Ministri degli esteri di Guatemala ed El Salvador furono invitati a seguire parte del viaggio, così che potessero tornare a casa e smentire la pericolosità del tutto. L'ingente spiegamento di forze dell'ordine utilizzate a loro protezione ebbe però un effetto simile all'esatto contrario.
Sul confine de La Arrocera si trova un altro dei punti più pericolosi dell'intero viaggio: El Basusero, una discarica a cielo aperto dalla quale i migranti passano per l'impossibilità di utilizzare il vecchio tratto ferroviario.
Uscire dall'inferno de La Arrocera però, non significa aver superato la parte più pericolosa del viaggio. Arrivati ad Arriaga, infatti, “la bestia” è in attesa.
La bestia, nome con il quale le ed i migranti chiamano i treni merci (chiamati anche “treni della morte”) sui quali salgono – letteralmente al volo – per proseguire il viaggio. Viaggiare sui tetti delle carrozze significa che una galleria troppo bassa o dei rami sporgenti possono costituire una seria minaccia. Dormire lo si fa a proprio rischio e pericolo, rischiando di cadere dal treno o di rimanerne mutilati.
Ci vogliono dodici ore di treno per arrivare ad Ixtepec, nello stato di Oaxaca. Qui si trova l'albergue para migrantes “Hermanos en el Camino” di padre Alejandro Solalinde Guerra, una delle prime fermate sicure.
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[parte 1 di 3: Salita agli inferi. Il viaggio delle migranti tra Guatemala e Stati Uniti]
(foto: frontierenews.it)
Andrea Intonti [http://senorbabylon.blogspot.it/]