Parola e Fede
Davanti al peccato: scusare o correggere?
Oggi il sacerdote don Francesco Brancaccio, docente di Teologia fondamentale presso l'Istituto Teologico di Cosenza, risponderà alla domanda di Eugenio, posta proprio dopo la lettura del suo articolo precedente.
R. Grazie Eugenio, per averci voluto manifestare il tuo apprezzamento. Permettimi di ringraziare insieme a te i tantissimi lettori che seguono questa rubrica.
E così con questa premessa, mi sono concesso un attimo di pausa prima di risponderti, perché poni una domanda piuttosto delicata... [MORE]
Un breve chiarimento, innanzitutto. Dobbiamo fermarci prima di poter dire che il fratello “ha commesso peccato”. Il peccato è infatti il male di cui una persona è responsabile con un certo grado di consapevolezza e di volontà. Noi possiamo essere anche in grado di giudicare ciò che oggettivamente è male, ma nessuno ha la capacità di vedere nel cuore dell’altro per sapere con quale coscienza soggettiva commette il male. Mai possiamo farci giudici, questo mai. Non posso dire allora che una persona pecca? Sì, ma solo se quella persona sono io stesso, se esamino la mia coscienza. Invece la coscienza dell’altro la conosce solo il Signore e solo lui sa se il fratello è peccatore. La coscienza del fratello compete solo a Dio; anche il confessore si deve fermare se il penitente non gliela svela. Considera anche che non possiamo sapere in che sofferenza o tormento si trova il fratello che ama Dio e si rende conto davanti a Lui di essere peccatore e vorrebbe convertirsi…
Non possiamo dunque giudicare l’altro, ma siamo sì responsabili di discernere ciò che oggettivamente è bene o male. In questo senso il Signore dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: "Sono pentito", tu gli perdonerai» (Lc 17,3-4). Se siamo in grado di aiutare il fratello a riconoscere il male in cui si trova, allora una parola di avvertenza, di buona testimonianza, di sostegno, di verità diventa un’ opera di misericordia. Una parola anche di incoraggiamento, di conforto, di perdono.
A quel punto, non si tratta di minimizzare o accentuare il male, ma di chiedere al Signore tutta la saggezza e la carità che sono necessarie per essere di vero aiuto al prossimo. Devo chiedermi: sono io in condizione di poter intervenire verso quel fratello? Sono credibile, do il buon esempio? Ho l’autorevolezza e la responsabilità di poter o dover dire qualcosa? Diversa è la responsabilità e la capacità di intervento del genitore, del coniuge, del sacerdote, del maestro, dell’amico, del conoscente, dell’estraneo… Posso anche confrontarmi su questo e sottoporre la situazione al mio padre spirituale, prima di capire come regolarmi.
E lui, il fratello, in che stato si trova? Una mia parola troppo esigente, potrebbe scoraggiarlo? La mia indifferenza, il mio tacere, oppure una mia parola troppo blanda o accomodante, potrebbero tranquillizzarlo nel male? A volte si può intervenire con una parola, a volte no. Guarda Gesù: davanti ai farisei ha dovuto smascherare apertamente la loro ipocrisia, davanti all’adultera è bastato dirle: “Neanch’io ti condanno, va’ e d’ora in poi non peccare più”…
Se si interviene, se si deve aspettare, se si offre al Signore la pazienza, questo deve essere solo per il più grande bene della persona da aiutare. Ma sempre è necessario il buon esempio; sempre occorre la preghiera. Saggezza, carità e preghiera sono le condizioni per discernere caso per caso come poter eventualmente intervenire e consigliare.
Don Francesco Brancaccio
Si ricorda che ognuno può porre i propri dubbi, i propri interrogativi scrivendo al seguente indirizzo di posta elettronica parolaefede@infooggi.it . Si cercherà di fornire a tutti una risposta.