Estero

Corrispondenze egiziane/4: possibili scenari post-voto

IL CAIRO, 21 GENNAIO 2012 - Ultima parte della nostra "corrispondenza egiziana", l'intervista che abbiamo realizzato - in quattro parti - con il giovane studente italiano Guglielmo Menichetti (le altre parti le trovate qui, qui e qui). Dopo esserci soffermati sul "prima" ed il "durante" le manifestazioni di piazza Tahrir e delle elezioni, concludiamo con qualche riflessione sul "dopo". [MORE]

Nell'edizione dello scorso 2 dicembre del quotidiano britannico “The Independent”, Robert Fisk si chiedeva chi sia, dopo il voto, il vero rappresentante dell'Egitto, se i “rivoluzionari” di piazza Tahrir o il successo elettorale della Fratellanza Musulmana. Ti rigiro la domanda.

Ho letto l'articolo di Fisk. È effettivamente molto interessante anche se non trovo elementi di sorpresa nell'andamento delle elezioni, né nell'atteggiamento dell'esercito. Siamo d'accordo sull'elemento di novità costituito dalla presenza dello SCAF al governo, senza veli o menzogne. La lotta di piazza, dopo nemmeno un anno dalla caduta di Mubarak è stata una faccenda dura e dispendiosa per gli egiziani, anche per chi non c'è andato a Tahrir. Anche per il tassista che mi ha detto ridendo “non esiste nessuna piazza Tahrir”, anche per il barbiere più famoso del centro “L'Eroe della rivoluzione”, che si è dato da solo il nome dopo il 25 Gennaio.

Il punto è che Mubarak, Gheddafi e gli altri (se mi si permette un grandissimo mutatis mutandis, Berlusconi) sono uomini espressioni o al massimo fondatori di un sistema, quel sistema è il vero nemico di chi è in piazza ma anche di chi non c'era. La piazza non era una piattaforma d'opinione, secondo me era l'esito duro e inequivocabile di persone stanche di essere raggirate. L'unica volontà politica (non per questo di poca rilevanza, certo) era quella di cacciare lo SCAF e di dare vita a uno Stato libero e democratico. Qui la pochezza delle istanze di piazza: se l'obiettivo è comunque lo Stato democratico, ci sono i partiti che dovranno siglare la fine delle ostilità e inaugurare il nuovo corso, sfruttare la memoria dei 42 morti e migliaia di feriti. Donde sarei per dire che la piazza rappresentava solo una parte della nazione, solo quelle persone ridotte veramente in mutande, che non avevano niente da perdere. Questo è certo un motivo più che sufficiente per scendere in piazza, ritengo.

In un articolo di Gennaro Gervasio su nenanews, si parla del ritorno alla politica di strada, sinceramente questa mi sembra un'affermazione affrettata. La piazza offriva capannelli, schieramenti, ma che si erano creati fuori dalla piazza. Dentro Tahrir non è “nato” niente: si è constatato che lo SCAF è inequivocabilmente un traditore della rivoluzione del 25 gennaio. Ormai anche chi non lo voleva vedere l'ha visto. Il momento movimentista è bello ma stancante e alla fine, ancora una volta i partiti hanno preso in mano il testimone, le immagini. Dalla grammatica dei graffiti, dalla simbologia degli slogan, siamo tornati a quella delle dichiarazioni e dei manifesti elettorali. Mi viene in mente un graffito al caffé Taher, zona Bursa: la M di McDonald, formata dalle scie di due caccia da combattimento con sotto scritto “SCAF:eat this”, ma adesso non posso che pensare ai partiti islamisti che chiamano a tornare in piazza e sfruttano la memoria dei morti, come se appartenesse loro.

Qui non è in questione “chi” rappresenti “chi”, ma la validità del concetto di rappresentanza. E non si dica che questo non è un tratto proprio del dibattito anche degli Stati europei. In Egitto abbiamo visto due risposte a tale quesito, pur nell'imperante incertezza .Chi era in via Mahmud a lanciare pietre non cercava nessuna rappresentanza. Anzi, era lì perché pensava che lo SCAF lo avesse rappresentato abbastanza. Chi invece è stato dietro, in piazza, chi addirittura a casa e al lavoro, loro si credono nella rappresentanza. La costruzione dello Stato passa per questa strettoia delle elezioni, che per quanto siano state onorate da molte persone, c'è da chiedersi quanto concretamente i partiti rappresentino le identità di questa nazione tanto grande e variegata. Quanto il meno peggio, quanto i rapporti di tipo clientelare hanno influito sul voto? Lo “state breaking” è il primo stadio della rivoluzione, adesso c'è da affrontare il terribile “state making” e la maggioranza della nazione vuole farlo tramite i partiti. I Fratelli sono lì apposta, non rappresentano davvero il 36.6% dei votanti, ma offrono un fronte saldo e vincente, che propone ordine dopo il caos e una leadership forte. D'altronde i partiti della rivoluzione, come il Blocco (13.4%) o La rivoluzione continua (3.5%) sono stati relegati alle briciole: non hanno saputo proporsi come rappresentanti, deboli e divisi, quindi hanno regalato voti agli islamisti. I confini porosi e permeabili dei partiti islamici hanno decretato la loro vittoria, pronti ad accogliere gli scontenti degli altri partiti, ancora in vena di concedere la propria rappresentabilità a qualcuno. In sunto de facto Libertà e Giustizia e La Luce rappresentano il 57% degli egiziani, ma le cause di questo sono negli errori dei liberali e secolaristi

(foto: The Independent)
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Andrea Intonti