Cronaca
"Chi non ha paura muore una volta sola". Paolo Borsellino il magistrato che insegnò il coraggio
PALERMO, 19 LUGLIO 2013 - “Nella vita sono stato sempre il secondo, e lo sarò anche nella morte”. “Giovanni Falcone era il mio scudo”. 19 luglio 1992, Palermo, calura estiva siciliana, un altro baluardo della lotta alla mafia cade, e noi che in questa terra siamo nati e cresciuti lo rammentiamo bene quel giorno. Era ancora vivo il ricordo della strage di Capaci, in cui aveva perso la vita il magistrato Giovanni Falcone, quando arriva la notizia, quasi attesa, dell’assassinio di Paolo Borsellino.
“Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano". Queste le parole di Borsellino dette in un’intervista rilasciata qualche giorno prima della sua morte. Ed è così che deve aver vissuto da quando l’amico e collega Giovanni lo aveva lasciato, deve aver provato ad andare avanti in una “continua lotta contro il tempo”, con l’ansia che quel maledetto giorno arrivasse.
Quella Fiat 126 carica con 100 chili di esplosivo sotto casa della madre, in via D’Amelio, ucciderà lui e i suoi cinque “angeli”: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Se ne andava non un magistrato qualunque, ma per ogni siciliano era venuto a mancare un “parente”, una “persona cara”, lasciando la sensazione di essere stati colpiti tutti in prima persona.
Magistrato che aveva fatto parte di quel “pool” antimafia guidato da Rocco Chinnici, inizierà, insieme agli altri colleghi, tra cui Falcone, Di Lello e Guarnotta, un diverso modo di operare, caratterizzato dal lavoro di gruppo, dallo scambio di informazioni che avrebbero consentito un lavoro più efficace per fronteggiare il fenomeno mafioso. Lo stesso Guarnotta dirà a proposito del pool che “si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza”. Continuerà dicendo che Falcone e Borsellino, che costituivano un pò la leadership di questo gruppo, erano uomini di “grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro”.
Frequentemente tutti i membri del gruppo avrebbero chiesto l’intervento dello Stato, ed a palermo fu inviato il generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto nel capoluogo siciliano e nel capoluogo siciliano ucciso dalla mafia. Sarà a quel punto che il Parlamento italiano varerà la cosiddetta “legge Rognoni-La Torre” con cui si istituirà il reato di associazione mafiosa, grazie al quale il pool antimafia lavorerà nella direzione dei capitali riciclati, strada che Falcone e Borsellino volevano percorrere. Dopo la collaborazione con la giustizia di Tommaso Buscetta e la morte del commissario Giuseppe Montana e del vice questore Ninni Cassarà, Borsellino e Falcone inizieranno a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che manderà alla sbarra quasi 500 imputati.
Caponnetto lascerà il pool e anche se ci si aspettava che al suo posto fosse nominato Falcone, il Consiglio Superiore della Magistratura nominerà Antonino Meli. Nell’ultimo intervento prima della sua morte, il 25 giugno’92, nel corso di una manifestazione promossa da MicroMega e trasmessa da telereporter, Paolo Borsellino commenterà così il fatto: “Si aprì la corsa alla successione all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, Falcone concorse. Qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, ed il giorno del mio compleanno il Consiglio Superiore della Magistratura ci fece questo regalo, preferì Antonino Meli”. Paolo Borsellino denuncerà a più riprese la decisione presa, vissuta come causa della distruzione del pool antimafia, rischiando, per queste sue dichiarazioni, anche un provvedimento disciplinare.
Borsellino presagiva che dopo l’amico Giovanni sarebbe toccato a lui morire. Per di più nel 1991 aveva saputo dal collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, che già un piano di morte nei suoi confronti era stato delineato, e che avrebbe dovuto essere lo stesso Calcara ad ucciderlo. “Lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla”, così gli aveva detto l’uomo d’onore.
Tutto questo non fermò comunque il magistrato, che continuò invece a denunciare lo stato di isolamento e il clima di diffidenza in cui lavoravano i giudici. "La paura è normale che ci sia in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, sennò diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti", così diceva Borsellino che pur sapeva di vivere ormai in una condizione di “condannato a morte”, parole sue.
E poi quel 19 luglio 1992 è giunto. Oggi a 21 anni dalla sua morte possiamo ricordarlo riprendendo le belle parole che la moglie Agnese, recentemente scomparsa, dedicò al suo Paolo vent’anni dopo la sua perdita: “Hai lasciato una bella eredità oggi raccolta dai ragazzi di tutta Italia…non siamo soli”, e possiamo tenere vivo il ricordo di quell’uomo che “dinnanzi alla morte annunciata ha donato senza proteggersi ed essere protetto il bene più grande, la vita”.
"Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola". Paolo Borsellino
(Foto dal sito palermonoi.it)
Katia Portovenero[MORE]