Cultura e Spettacolo
C'era una volta il catenaccio, intervista ad Antonio Ludovico
Catanzaro, 9 Febbraio - C’era una volta un calcio fatto da uomini veri, che non avevano paura di prendere calcioni né, tantomeno, di darli, che incarnavano uno spirito battagliero e generoso e si curavano i propri interessi da soli, senza procuratori. Il calcio delle “bandiere”, calciatori che rimanevano per tutta la carriera nella stessa squadra. Si scendeva in campo con divise dai colori che non cambiavano mai, non c’erano i nomi sulle spalle ma soltanto i numeri, dall'uno all'undici per i titolari. Gli allenatori erano maestri di calcio e di vita e i presidenti un secondo papà.
Bastava una stretta di mano per sancire un accordo. Le partite si giocavano tutte contemporaneamente, la domenica pomeriggio, si seguivano dalle gradinate e chi non poteva andare allo stadio doveva sintonizzarsi con una radiolina e ascoltare le storiche voci dei radiocronisti. Soltanto alle 18:00, grazie a “90° minuto” condotto da Paolo Valenti, si potevano vedere le azioni più salienti delle partite di serie A.
Il sistema di gioco più utilizzato era il “catenaccio”, marcature a uomo asfissianti, massima attenzione nel distruggere il gioco dell’avversario, contropiedi velocissimi e attaccanti straordinari, capaci di capitalizzare al massimo le poche occasioni a disposizione per fare gol. Una passione che divorava milioni di italiani che si esaltavano davanti ad una giocata geniale, anche se priva di efficacia.
È questo calcio che l’avvocato Antonio Ludovico intende raccontarci con la sua quinta pubblicazione, “C’era una volta il catenaccio”. Lo fa con una formula che ricalca quella fortunata di un suo libro precedente dedicato alla musica rock. Un’esposizione appassionata e appassionante attraverso la narrazione di trentuno storie meravigliose, sapientemente riempite di umanità e valori. Campioni di secondo piano, se confrontati calcisticamente a Riva, Rivera, Mazzola, Platini, Falcao o Maradona, ma tutti campioni di vita. Scavando in profondità l’autore è riuscito a far emergere trentuno esistenze che hanno contribuito in maniera determinante a rendere romantico quel mondo attraverso sentimenti quasi sconosciuti in altri sport.
Figure carismatiche, capitani coraggiosi, uomini creduti immortali. Leali, con un forte senso di attaccamento ai colori, con le loro virtù e le loro sofferenze, con i loro sentimenti. Alcuni nati operai e altri per mostrar meraviglie. Robin Hood della provincia povera, figli dell’oratorio, emblema di un calcio pulito. Non mancano talenti sprecati, campioni che vinsero tanto e passarono alla storia soltanto per un episodio, uomini che ebbero il coraggio di denunciare le strane sostanze che gli erano state somministrate, combattenti venuti a mancare tra sofferenze indicibili sotto i colpi della SLA, campioni di longevità che riuscirono a giocare dai tempi di Rivera fino a quelli di Totti, ma anche chi fu coinvolto nel calcio scommesse.
Con grande capacità di scavo psicologico, l’avvocato esplora l’animo di questi protagonisti non riconosciuti e, così facendo, ci racconta quella parte meravigliosa di un’epoca, quella degli anni ’70, che fu tremenda. Violenze di piazza, lotta armata e terrorismo erano la quotidianità, il calcio, in questo contesto, fu, invece, un forte strumento di aggregazione e le magie di Chiorri, Zigoni, De Ponti, Fanna, Cantarutti, Vendrame, Sollier, Mammì, Palanca e tanti altri aiutarono a sognare e a sconfiggere la paura del domani.
Abbiamo incontrato l’autore, l’avvocato Antonio Ludovico:
-Avvocato come nasce l’idea di scrivere “C’era una volta il catenaccio”?
Nasce perché sono un maledetto nostalgico, sono innamorato del calcio degli anni’70 e ’80, che ho vissuto quando avevo i pantaloncini corti. Amavo quel calcio giocato con i calzettoni abbassati, amavo “90° minuto” e, soprattutto, quelle che una volta si chiamavano “bandiere”. Ho voluto fare trentuno quadretti dedicati non ai campioni più noti, ma a protagonisti che avevano, comunque, una storia importante da raccontare.
-Nella narrazione ha ricalcato il modello utilizzato nel suo precedente libro “Protagonisti imperfetti” dedicato alla musica rock. Perché questa scelta?
Ho preso in esame circa cento profili. Ho scelto quelli di persone che hanno avuto dei drammi nella loro vita a causa proprio del calcio, ho voluto tratteggiare dei protagonisti che hanno avuto a che fare con la politica e mi è piaciuto dare anche un tocco di catanzaresità, ci sono, infatti, anche Angelo Mammì e Massimo Palanca che, come tutti sanno, sono le colonne della storia del Catanzaro. Per quanto riguarda la formula l’ho riproposta in quanto io mi trovo bene. Mi piace perché sono dei bozzetti molto significativi, mi consente di raccontare aneddoti che pochi conoscono. Sono dei flash che si leggono con una certa facilità. Credo sia la formula che più mi si attaglia.
-Scavando in profondità in questo territorio ricco e fertile, lei ha fatto emergere trentuno storie meravigliose. Quali caratteristiche sono state fondamentali per le sue scelte?
Ho voluto tratteggiare storie di uomini, con sullo sfondo, naturalmente, il calcio. Ho preferito quegli uomini che avevano problematiche molto in voga negli anni ’70, soprattutto quelle legate a quelle strane sostanze che tantissimi giocatori prendevano inconsapevolmente, prima e durante gli incontri, i cui drammatici risultati si sono visti nel corso degli anni. Penso in particolare al capitano dell’Avellino, Adriano Lombardi, morto di SLA, o a Ferruccio Mazzola, Nello Saltutti e tante altre vittime di queste sostanze. Ho voluto, inoltre, sottolineare la grandissima qualità dei giocatori degli anni ’70 e ’80. Una qualità pazzesca, basti pensare che gente come D’Amico, Beccalossi, Claudio Sala, Pulici, Savoldi, Pruzzo, Pasinato, Palanca, non trovavano spazio in nazionale, a dimostrazione del fatto che il vivaio italiano era molto importante.
-Campioni di vita, figure carismatiche. Quale storia l’ha particolarmente colpita?
Ce ne sono diverse, una è quella di Zigoni, l’ho definito il centravanti con la pelliccia, un giocatore fortissimo ma era anche un pazzoide, gli piacevano le donne, il whisky, Che Guevara, tutto ciò che non aveva a che fare con il calcio. Quando decideva di giocare, però, era irresistibile, infatti ha giocato con la Juventus, ha vinto scudetti, avrebbe potuto avere molto di più dal calcio se solo avesse avuto una testa diversa. Un’altra è quella di Ferruccio Mazzola, figlio di Valentino e fratello di Sandro, entrambi fra i primi dieci giocatori più forti della storia del calcio italiano. Poche presenze in serie A, ha vinto uno scudetto con la Lazio senza giocare, ma ha avuto il coraggio di denunciare quelle strane pozioni che Helenio Herrera, il Mago, metteva nel Tè ai propri giocatori, alcuni dei quali ebbero poi ricadute terrificanti.
-Gli anni ’70 furono un’epoca tremenda. Violenze di piazza, lotta armata e terrorismo erano la quotidianità. Quanto fu importante il calcio in quel particolare momento storico?
Furono anni terribili, soprattutto a partire dal 1977, che probabilmente fu l’anno più violento della storia italiana degli ultimi cinquant’anni. Quel calcio, che si giocava in tutta Italia, dalle periferie alla Serie A, di domenica pomeriggio, costituì una grande valvola di sfogo.
-Grazie alle sue capacità di scavo psicologico ha esplorato l’animo di questi campioni. Quali differenze fondamentali crede ci siano con i ragazzi che fanno calcio oggi?
La stessa differenza che c’è tra il giorno e la notte. Quelli erano campioni veri, soprattutto come uomini. Avevano interessi extra calcistici importanti che non vedo nei campioni di oggi. Un mondo completamente diverso, più vero. Cito ad esempio la tragica scomparsa della “farfalla granata”, Gigi Meroni, l’ala destra del Torino che oggi giocherebbe titolare in tutte le squadre d’Europa. Reduci da una grande vittoria, i ragazzi del toro chiesero al proprio allenatore, Edmondo Fabbri, il permesso di poter andare per la prima volta in discoteca. All’uscita Gigi perse la vita a causa di un incidente stradale. Questo dà la misura del rispetto che c’era allora a differenza di oggi, dove i giocatori sono liberi di andare dove vogliono e postano tutto quello che fanno.
Saverio Fontana