Cronaca
Cartella esattoriale a Ignazio Cutrò, ma la legge lo vieta
AGRIGENTO, 27 DICEMBRE 2011 – 85 mila euro da pagare entro trenta giorni. Altrimenti, prevede la legge, i beni immobili di sua proprietà saranno ipotecati. Peccato che un altra legge renda – o sarebbe meglio usare il condizionale, data la situazione – completamente illegale l'atto. Perché la cartella esattoriale è arrivata ad Ignazio Cutrò, che da anni denuncia il racket delle estorsioni mafiose. [MORE]
Per i testimoni di giustizia come Cutrò, infatti, la legge imporrebbe la sospensione prefettizia della cartella, ma una serie di ritardi ed incomprensioni burocratiche hanno permesso che partisse ugualmente.
La storia. Ignazio Cutrò è un imprenditore edile di Bivona, nell'agrigentino. Sposato, con due figli, nel 1999 subisce le attenzioni della famiglia mafiosa locale, i Panepinto, passati, come ha constatato la Direzione distrettuale antimafia con l'operazione “Face off” dal pagare il pizzo a richiederlo. Quello che subisce Cutrò lo conosciamo tutti: minacce, incendi, danneggiamento dei mezzi. È proprio dalle sue denunce che è partita l'operazione. Nonostante i boss siano stati arrestati, le intimidazioni sono continuate, e dal 2006 l'imprenditore vive sotto scorta insieme alla sua famiglia.
«Ho sempre creduto nello Stato e mi sono sempre opposto alla violenza mafiosa, credevo che si potesse sopravvivere facendo il proprio mestiere anche se ti opponevi a Cosa Nostra» - dice Cutrò - «Lo credo ancora e sono disposto a non avere una vita normale, a essere scortato notte e giorno purché cambi qualcosa nel sistema. Ma che segnale dà lo Stato lasciandomi in balia di debiti che dovevano essere sospesi per 300 giorni?»
Dalla Prefettura – scrive “Il Fatto Quotidiano” che ha riportato per primo la notizia – nessuno risponde. «È una situazione simile a qualche tempo fa, quando volevano che abbandonassi la mia città, che scappassi per proteggermi meglio e ricominciare una vita. Ma che senso ha scappare dopo aver denunciato? È come dargliela vinta ai mafiosi».
«È ingiusto» - ha commentato Filippo Ribisi, presidente di Confartigianato Sicilia - «che lo Stato italiano chieda agli imprenditori di mettersi in prima linea denunciando il pizzo imposto dai mafiosi, e poi li costringa a confrontarsi con meccanismi burocratici lunghi e farraginosi che finiscono per boicottarli, prestando il fianco alla criminalità che punta anche su questo per scoraggiare le imprese a denunciare».
Andrea Intonti