Cronaca

Calabria, terra non consapevole delle proprie virtù. Intervista a Francesca Chirico

REGGIO CALABRIA, 29 OTTOBRE 2012 - Francesca Chirico è nata a Reggio Calabria. È specializzata in cronaca nera. Collabora con “Narcomafie”, mensile di approfondimento. É tra i redattori dell’archivio multimediale www.stopndrangheta.it . Arrovescio è il suo primo romanzo ed ha vinto il Premio Nazionale per opere inedite 2010. La Calabria è considerata il cono d’ombra dell’informazione e questo è un problema che deriva da lontano. La terra calabrese non è consapevole della propria forza e della propria storia, è una terra capace di essere fiera e determinata.

Arrovescio è il suo primo libro, vincitore del Premio Nazionale per le opere inedite 2010. Perché ha sentito il bisogno di scrivere questo romanzo?[MORE]

Non parlerei di bisogno. È stato impossibile non farlo. Ci sono storie troppo forti, che hanno la meglio sulla volontà o sulla mancanza di volontà dell’autore. La storia dello sciopero a rovescio di Badolato è una di queste. Pretendeva, a ragione, di essere raccontata. A più di cinquant’anni di distanza, l’epopea degli scioperanti di quel paese, decisi a costruire da soli la strada verso la montagna che i notabili, per difendere i propri interessi, non vogliono, ha la capacità di parlare di un passato calabrese di grandi, e spesso sconosciute, battaglie di dignità e di un presente che di costruttori di strade in salita avrebbe bisogno.

Il suo fine era quello di invitare a recuperare e mantenere vive le proprie radici?

Sì, ma non in chiave nostalgica, consolatoria o folkloristica. Le radici non vanno messe sotto vetro e contemplate. Quello che dovremmo imparare a fare è riconoscere il nutrimento che hanno fatto arrivare fino a noi e farlo scorrere, usarlo, dargli un senso. E invece troppo spesso ci limitiamo a nasconderci, per la vergogna del presente, dietro l’effigie del passato. Un’effigie che però, nella stragrande maggioranza dei casi, non è mai riuscita davvero a parlarci al cuore. L’esempio che faccio spesso, soprattutto parlando con i ragazzi nelle scuole, è quello di Enea che, tra le fiamme e le macerie di Troia che brucia, porta via da casa l’indispensabile: il vecchio padre sulle spalle, il figlio per mano e la statuetta dei Penati, cioè degli antenati. Sa che ovunque andrà, non potrà erigere una casa solida senza i Penati, cioè senza la memoria, senza le radici. Ecco, diciamo che in Calabria ci siamo persi i Penati.

Perché, secondo lei, il suo libro è considerato un romanzo che si legge tutto d’un fiato?

É una domanda impegnativa. Mi sta chiedendo di immedesimarmi nei lettori di Arrovescio e ci rinuncio in partenza: la lettura è un’esperienza troppo intima e personale. Posso dire, però, che ho lavorato più per sottrazione che per addizione, più per semplificazione che per ridondanza. Sulla semplicità e la leggerezza, ma non solo su questo, aveva ragione Calvino: sono dei valori ma anche degli obiettivi stilistici tremendamente faticosi. E chi definisce Arrovescio un libro che si legge tutto d’un fiato mi fa, ovviamente, molto contenta.

Arrovescio presenta la Calabria come una terra fiera e determinata, è davvero così?

La Calabria è una terra capace di essere fiera e determinata. Ma, nel proprio immaginario, ha forse dimenticato di poterlo essere o, peggio, pensa che sia inutile esserlo. E’ una questione di consapevolezza della propria forza e della propria storia. Per questo diventa così importante recuperare dall’oblio vicende come quella dello sciopero a rovescio di Badolato, ma anche le storie dei protagonisti delle battaglie antindrangheta che hanno attraversato la nostra regione, spesso senza lasciarsi dietro neppure una targa commemorativa. É un processo faticoso, ma indispensabile, di ricostruzione di una nuova identità collettiva. Quanti calabresi sanno che il primo Comune costituito parte civile contro la mafia in Italia è il comune calabrese di Gioiosa Jonica? Quanti calabresi conoscono la storia dei ragazzi di Cittanova che si misero ad urlare sotto il balcone del boss dopo l’omicidio di Ciccio Vinci? Quanti calabresi sanno che sempre a Cittanova una studentessa ventenne sbattè fuori di casa l’emissario delle cosche che si era presentato a chiedere il pizzo armato di fucile? Ecco. Siamo anche questo. E dobbiamo esserne all’altezza.

La terra calabrese è considerata il cono d’ombra dell’informazione. Cosa pensa a riguardo?

Penso che il problema arrivi da lontano: a rifletterci bene si trascina dalla fine dell’Ottocento, da quel marchio di terra primitiva e irredimibile che ci hanno regalato dopo l’Unità. Una terra perduta alla civiltà, almeno che la civiltà non si imponesse con i fucili. Ma penso che il cono d’ombra sia in parte anche il risultato del silenzio risentito in cui ci siamo chiusi per decenni. Offesi per come ci raccontavano, o perché non ci raccontavano, abbiamo rinunciato a raccontarci noi. Giornalisti, scrittori, artisti. Quelli che non sono andati via, sono stati risucchiati nei polverosi e asfittici circoli di provincia, lentamente spegnendosi. Non si può però negare che gli ultimi anni sono caratterizzati da un’energia nuova, da un vento che sta portando aria fresca: penso, per esempio, alla nascita dei nuovi organi d’informazione on line o alla consacrazione di scrittori come Carmine Abate e Mimmo Gangemi. Si tratta di un fermento giornalistico e culturale che non va sottovalutato.

Specializzata in cronaca nera, come si diventa cronisti?

Intanto non pensando che ci siano ricette buone per tutti. E non illudendosi che le risposte più importanti, quelle sul senso del mestiere, sui suoi rischi, sul suo bello e brutto, possano arrivare senza camminare, chiedere, guardare negli occhi le persone, e farsi sbattere la porta in faccia. Fortunatamente questo è ancora vero e lo resterà. Per il resto, faccio mio il pensiero di Kapuscinsky: il cinico non è adatto a questo mestiere. Un cronista senza empatia ha sbagliato lavoro.

Collabora con “Narcomafie”, mensile di approfondimento; quando e perché nasce l’interesse per il giornalismo antimafia?

Non ho interesse per il giornalismo antimafia. Ho interesse per il giornalismo che guarda le cose da vicino. Cos’è che diceva Robert Capa? Ah, sì…non esistono fotografie belle o brutte, esistono solo immagini prese da lontano o da vicino. Fare questo mestiere in Calabria, provando a guardare le cose da vicino, significa, per quanto mi riguarda, scrivere di ’ndrangheta. E non per finire nel club dei giornalisti antimafiosi e per farsi appendere al petto una medaglietta. Ma, molto più banalmente, per vivere questo mestiere nell’unico modo che mi interessa.

È tra i redattori dell’archivio multimediale www.stopndrangheta.it, perché hai sentito la necessità di entrare a farne parte?

In questo caso parlerei del desiderio di dare il mio contributo a un’idea forte e nuova che ho visto nascere e diventare progetto, grazie alla visione e al coraggio di un gruppo di giovani giornalisti calabresi. Con Stopndrangheta.it, il primo archivio multimediale dedicato alla ndrangheta e all’antindrangeta, stiamo provando, ogni giorno, a coniugare ricerca documentale e produzione culturale, lavoro sulla memoria e lavoro sull’immaginario, mescolando linguaggi e sfruttano al meglio le potenzialità offerte dal web. Soprattutto, stiamo provando ad offrire uno strumento di approfondimento che, attraverso la pubblicazione on line di carte giudiziarie, documenti istituzionali e vecchie rassegne stampa, provi a spazzare via, in tema di conoscenza della criminalità organizzata calabrese, ignoranza e sottovalutazioni.

Oggi c’è un’area grigia della società costituita da commercianti e professionisti che fanno da intermediari con la mafia. Cosa si dovrebbe fare per impedire che questo avvenga?

Farlo diventare sempre meno conveniente. Sia sul fronte delle conseguenze penali che su quello delle conseguenze “sociali”. In tal senso un ruolo fondamentale giocano gli ordini e le associazioni di categoria che a Reggio Calabria, per esempio, di fronte all’impressionante elenco dei professionisti coinvolti nelle inchieste della Dda, si sono limitati all’autoassoluzione, parlando di poche mele marce e nascondendosi dietro gli inutili protocolli di legalità firmati con il mondo intero. Ecco, direi che ci vuole altro. E che questa prudenza è parte del problema.

Riusciremo mai a sconfiggere la criminalità organizzata?

Quel che conta è agire come se fosse possibile.

Giulia Farneti