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"Burke and Hare": torna Landis, ma è quasi un cadavere

John Landis torna, anzi no. È esiliato. Per “Burke and Hare – Ladri di Cadaveri”, il regista statunitense, in auge negli eighties con alcuni titoli diventati cult (Blues Brothers, Twilight Zone, An American Werewolf in London, Trading Places…) si affida ai londinesi Ealing Studios, un po’ per l’affascinante retaggio degli anni ’50, quando la casa di produzione, all’apogeo, sfornò lo storico “Ladykillers” con Alec Guinness, capace di attirare l’attenzione dei Coen per un – non riuscitissimo – remake; in parte perché negli Usa i finanziatori latitavano. Declino smentito? Diremo: seppellito come una verità scomoda.[MORE]

La storia, vera, è quella macabra e tristemente nota degli omicidi di Westport. Ad Edinburgo, tra il 1827 e il 1828, due immigrati irlandesi, William Burke (Simon Pegg) e William Hare (Andy Serkis), commisero diciassette omicidi per rivendere i cadaveri alla facoltà di medicina dell’università locale, come corpi da vivisezionare per il progresso della scienza medica. Mettici delle great expectations aggiuntive (i due pensano di ingrandirsi e di aprire un’agenzia di pompe funebri) ed una storia d’amore, con una Giulietta che si crede Macbeth, e la commedia grottesca è servita. Qualcuno grida al noir, ma ci sono troppe gag: sembra un grigiastro stinto.

Tutto funziona alla perfezione, con un solo difetto: troppo perfettamente. I due cialtroneschi assassini si muovono in un ambiente opportunamente curato sotto il profilo dei costumi e delle scenografie, con un’atmosfera tra il livido anglosassone ed il chiassoso delle bettole, che la fotografia di John Matieson – fedelissimo di Ridley Scott – asseconda diligentemente. La Scozia popolosa, con le esecuzioni scrupolosamente seguite da una claque affezionata al proprio grandguignol, anima il film di una coralità vivace, in cui dalla massa emergono tipizzazioni spassose, come l’autorevolmente basso capitano di polizia, il consesso degli Illuministi che ingaggiano la sfida dei cadaveri, la moglie imprenditrice di Hare, affittacamere in calore. Tanto affiatamento avrebbe dovuto trascinare lo spettatore, che resta invece piuttosto freddo di fronte a scenari in fondo già visti, da “Sweeney Todd” all’infinita serie degli Oliver Twist. La stessa sequela melbrooksiana di gag procede a tratti per giustapposizioni sfasate, non esenti da un vago gusto “archeologico” del regista, che non risparmia di autocitarsi (soprattutto “Animal House” nel finale). Non è un caso il corredo dei cammei, da Christopher Lee a Ray Harryhausen, da Jenny Agutter a John Woodwine.


Mentre ai modesti sceneggiatori scolaretti non si poteva chiedere di meglio (Piers Ashworth e Nick Moorcroft, pedigree non pervenuto), dalla regia di Landis era lecito aspettarsi qualcosa di più. Non manca qualche lampo interessante, al di là delle caratterizzazioni. La satira insistita sul contrasto tra la sbandierata supremazia della ragione e l’abbandono ad istinti animaleschi (i ritmati e faceti amplessi dei coniugi Hare), all’irrazionalità del servirsi della morte per curare la vita (il Dottor Knox ed il mercato dei cadaveri), alle bieche questioni economiche che condizionano il senso di giustizia (i ladri di cadaveri vanno risparmiati… per il business della facoltà di medicina), è indubbiamente un leitmotiv sviluppato con una certa coerenza, fino alla bella scena delle “prove” fotografiche bruciate nel camino. Chi ha rubato il fuoco a Prometeo?

Nel complesso, una black-comedy tirata a lustro, dalla comicità un po’ analogica e dalla regia che suona come un insincero amarcord dall’irriverenza vintage. Lo spettatore scaltro resta freddo come i colori di Edinburgo.

ANTONIO MAIORINO