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Bigas Luna, un omaggio: "Prosciutto, prosciutto", la recensione - 1° TEMPO
Prosciutto, prosciutto di Bigas Luna - la recensione. Abbiamo dato notizia della scomparsa del regista spagnolo Bigas Luna, e certo né ulteriori necrologi né florilegi ex post sono opportuni. Credo però che in queste circostanze, più che profondere a buon mercato litanie di complimenti odorosi come mazzi di crisantemi, possa avere un senso – emotivo, almeno – trarne partito per omaggiare l’autore nel modo forse più grato ad un artista: cercando di capirlo. L’attenzione è sempre un atto d’amore (anche intellettuale). [MORE]
Pensavo ad un film straordinario come Prosciutto, prosciutto (Jamón, jamón), che ha conosciuto una contraddittoria sorte critica. Da un lato valse a Bigas Luna il Leone d’Argento nel 1992 alla Mostra Cinematografica di Venezia, dall’altro fu ribattezzato sarcasticamente, proprio in Laguna, Prosciutto, amore e fantasia; da un lato lanciò Javier Bardem e Penélope Cruz, e viene considerato uno dei titoli più validi del regista, dall’altro ancora oggi è svilito da una folta schiera di detrattori, con in testa uno dei guru della critica italiana che nel suo arci-noto dizionario lo bolla come “sgangherato melodramma semifarsesco e genital-prosciuttesco”.
Certo, questa salameria interpretativa è destinata ad essere dominante – visti i numeri di quel dizionario. Ma quanto agli innumeri numeri verbali, ossia alle acrobazie dialettiche con cui quel film è stato sdilinquito senza pietà (gli spietati vanno di moda, nella critica italiana), credo nessuno abbia alcunché da obiettare, se si proverà a sostenere in questa recensione che lo “sgangherato” è una categoria necessaria del grottesco, ed i Coen ce ne insegnano la classe in potenza; che il mélo, dopo sdoganamenti a destra e a manca, non può essere considerato un genere infimo, almeno non senza far rivoltare nella tomba Douglas Sirk; che il “semifarsesco” non è peggiorativo, quando non è involontario; che genitali e prosciutti sono funzionali alla causa di un cinema erotico e materico.
La povera ma bella Silvia (Penélope Cruz), figlia di una ex prostituta (Carmen, Anna Galiena), è innamorata del rampollo Josè Luis (Jordi Mollà), da cui è ricambiata e di cui porta in grembo il figlio. Al matrimonio si oppone la madre-matrona di lui, Conchita (Stefania Sandrelli), produttrice di mutande, che assolda un gagliardo truzzo locale, Raul (Javier Bardem), magazziniere di un deposito di prosciutti, per conquistare Silvia e spaccare la coppia. Il fatto è che la stessa Conchita non è insensibile al fascino del macho.
(Penélope Cruz in una scena del film)
Si potrebbe partire da quei titoli di coda in sordina, in cui Stefania Sandrelli è indicata come la madre puta, mentre Anna Galiena è la puta madre (e Penélope Cruz, secondo logica, la hija de puta). Questa rinuncia ai nomi sembra quasi ventilare l’impiego di maschere e personaggi stereotipati, come nella farsa storica. E cionondimeno, questa eclissi della psicologia drammatica si spiega senza amputazioni dell’arte della commedia, o della commedia dell’arte, se si considera l’emersione pulsionale di un eros di fondo, che sembra trascinare tutto all’azione, all’annichilimento, al nonsense. La scena in cui un personaggio letteralmente scoglionato come quello del padre di José Luis bacia la disperata Silvia, senza alcuna ragione, ammettendo il proprio “non lo so”, non è da meno a certe “atti esistenziali senza regia del cosmo” che si trovano nei film dei Coen, in cui è il caso a scombinare la trama lineare dell'esistenza.
Qui, per l’appunto, manca il senso, ma non i sensi: l’eros è l’alfa e l’omega, è se stesso ma è anche il suo opposto, thanatos, la morte. Per fare un cinema sensuale e sensista, e non semplicemente erotico, Bigas Luna cerca di produrre una tensione animalesca verso ogni percezione spettatoriale: fa un cinema che si tocca, come i capezzoli di Penélope Cruz sfregolati dal ragazzo o quelli dello stesso ragazzo vellicati dalla madre; che si assapora, come quel cibo bunueliano che compare di frequente (le omelette di Silvia che piacciono tanto a Josè Luis); che si odora, come quella testa d’aglio che Raul mastica e che Conchita annusa più tardi, per rievocare l’umore olfattivo del rapporto carnale; che si ascolta in uno zoom in dell’udito, come il tintinnio della collana di perle di Conchita (che si rompe due volte), o quello della slot machine a cui gioca lo sfaccendato magazziniere di prosciutti, o la pipì che crocchia sulla lattina di Coca Cola in una minzione all’aperto; che si vede e che si spia con voyeurismo, come quando Conchita ed il figlio sorprendono Silvia e Raul a fare l’amore nel deposito, o come nella sequenza in cui Josè Luis si masturba semplicemente guardando – ma non può toccare – la madre di Silvia, nell’ultimo spogliarello pre-matrimoniale.
(in foto in alto a sinistra: un'immagine in bianco e nero dal Prosciutto, prosciutto, con Javier Bardem a destra)
(...FINE PRIMO TEMPO...)
Antonio Maiorino
Critico d'arte e di cinema
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