Cronaca
Barcellona Pozzo di Gotto, la trattativa all'ombra del Parco
BARCELLONA POZZO DI GOTTO (MESSINA), 10 FEBBRAIO 2012 – La criminalità organizzata, Cosa Nostra in particolare – come insegnano sia la biografia dell'organizzazione che la moltitudine di libri e film realizzati sull'argomento – ha una vera e propria passione per la terra, essendo nata nelle masserie di proprietà dell'alta borghesia dell'isola agli inizi del diciannovesimo secolo. Oggi, con quell'epoca ormai alle spalle quello stesso “sentimento” viene declinato in cose come il movimento terra o il lavaggio del denaro di provenienza illecita attraverso la penetrazione di economie legali come quella edile.
Un altro dei “primi amori” di Cosa Nostra – ma anche delle altre organizzazioni criminali, come inchieste giornalistiche e giudiziarie ci raccontano sempre più spesso – è la politica, e tenendo fede al vecchio e ben noto detto, ambedue sono “amori” che non si scordano.
Quando si uniscono, però, abbiamo una situazione come quella di contrada Siena, in provincia di Barcellona Pozzo di Gotto (nel messinese) dove – come scrive Antonio Mazzeo in un recente articolo su “I Siciliani giovani” - un terreno che nel luglio 2007 era valutato 28 euro al metro quadrato diciannove mesi dopo ne valeva 85, cosa che porterebbe, ad esempio, ad una plusvalenza di circa il trecento per cento se quel terreno fosse messo in vendita. [MORE]
Ma nessuno ha intenzione di venderlo, anzi. Perseguendo la più bipartisan delle politiche italiane – quella del cementificare in ogni modo ed in ogni luogo possibile - l'idea è quella di trasformare un'area agricola in un mega parco commerciale di 18,4 ettari attorno al quale sviluppare l'industria alberghiera, quella della ristorazione e quella del divertimento.
Letto dall'altro lato, questo significa aggiungere cemento in una regione che già soffre di un eccessivo problema di cementificazione. Anche se quello del cemento, per quanto riguarda contrada Siena, non sembra essere il problema più grosso.
Innanzitutto perché a fine novembre 2011 la ministra dell'Interno Anna Maria Cancellieri ha firmato – insieme al prefetto di Messina Francesco Alacci – il decreto di accesso agli atti che istituisce la commissione di indagine sulle eventuali infiltrazioni della criminalità organizzata nel comune barcellonese. Un lavoro d'indagine della durata di novanta giorni. A breve, quindi, si saprà se quello barcellonese sarà un altro dei già troppi Comuni sciolti per tale motivo.
Uno dei nodi chiave dell'inchiesta verterà proprio sul progetto del Parco di contrada Siena e sulle numerose anomalie «che hanno condizionato l'iter progettuale», come hanno più volte denunciato le associazioni antimafia “Rita Atria” e “Città Aperta”, secondo i quali le prove del condizionamento e delle “pressioni esterne all'interesse generale” derivano da una serie di “atti, comportamenti ed elementi sintomatici che s'inseriscono all'interno di un pesante quadro politico rappresentato dall'approvazione del nuovo Piano Regolatore Generale di Barcellona, caratterizzata da gravi sospetti d'illegitimità”.
Tra questi atti c'è un contratto d'affitto sottoscritto per un palazzo di via Operai – destinato ad ospitare uffici pubblici – che da oltre dieci anni rappresenta una voce di guadagno per una società direttamente riconducibile a Rosario Pio Cattafi, nelle cui disponibilità c'è anche la Dibeca S.a.s, società che ha proposto il progetto di contrada Siena e che è proprietaria di circa sei ettari dell'area su cui dovrebbe venir creato il progetto. Già, ma chi è Rosario Pio Cattafi?
L'uomo che muove i fili. Rosario Pio Cattafi è un avvocato. E non solo. Descritto come «una delle figure più emblematiche mediante il quale la città di Barcellona diventa il crocevia, snodo nevralgico e luogo di convergenza ove si intersecano gli interessi della mafia catanese e palermitana, intrecciandosi con imponenti operazioni finanziarie e di illeciti traffici che portano fino alla lontana Milano», secondo quanto scriveva nel giugno 2005 la Procura della Repubblica di Barcellona non solo sarebbe una «persona socialmente pericolosa», e già questo basterebbe, eventualmente, per mettere un freno al progetto, ma sempre secondo il rapporto della Procura sarebbe addirittura il «capo di una consorteria criminale», che è la trascrizione in “burocratese” per dire che Cattafi, a Barcellona, sarebbe il capomafia. A darne conferma arrivano, peraltro, non solo le parole di Carmelo Bisognano, collaboratore di giustizia, ex capo del clan di Mazzarrà Sant'Andrea e membro della “commissione” che teneva in collegamento il mandamento con la mafia etnea, ma anche il sequestro - avvenuto qualche mese fa ad opera del Tribunale messinese – di beni e conti correnti della famiglia Cattafi, valore intorno ai sette milioni di euro.
Il nome dell'avvocato, nello specifico, è legato al clan catanese dei Santapaola, dunque ai corleonesi, e durante la fase stragista (l'anno è il 1993, procedimento “Sistemi Criminali”) il suo nome compare accanto a quello del capoclan – cioè Nitto Santapaola – di Totò “'u curtu” Riina, di Licio Gelli, a quello di Stefano delle Chiaie (il cui curriculum annovera avvenimenti come il fallito golpe Borghese, la strage di Piazza Fontana e quella della stazione di Bologna) ed a quello del mercante d'armi messinese Filippo Battaglia nell'ambito della più ampia inchiesta sui “mandanti occulti” dell'epoca. Il sospetto era quello di «avere, con condotte causali diverse ma convertenti, promosso, costituito, organizzato, diretto e/o partecipato ad un'associazione, promossa e costituita in Palermo anche da esponenti di vertice di Cosa Nostra, avente ad oggetto il compimento di atti di violenza con fini di eversione dell'ordine costituzionale, allo scopo – tra l'altro – di determinare le condizioni per la secessione politica della Sicilia e di altre regioni meridionali dal resto d'Italia». Per questo nel luglio del 2000 il Tribunale di Messina decretava nei suoi confronti la misura di sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Barcellona per la durata di cinque anni (la durata massima prevista dalla legge). «Numerosi collaboratori di giusizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola» - scrissero all'epoca i giudici peloritani - «hanno indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono», che poi sono nomi ricorrenti quando si parla di Cosa Nostra, seppur nella sua versione “lombarda”.
Prima di diventare uno dei raccordi tra la Cosa Nostra siciliana e quella del nord, durante il periodo universitario milita nei movimenti di più o meno estrema destra, passando attraverso il Fuan – l'organizzazione universitaria del gruppo di Almirante – e, soprattutto, avendo rapporti non sporadici con esponenti di Ordine Nuovo (la cui sede era ospitata dai futuri “aennini”), tra i quali spicca Pietro Rampulla detto “L'artificiere”, ex capofamiglia di Mistretta con un ruolo di spicco nella strage di Capaci. A seguito di queste conoscenze, nel 1996 gli uomini del Gruppo Investigativo Criminalità Organizzata (il Gico) della Guardia di Finanza lo definì “terrorista” in un'informativa su un presunto traffico internazionale di armi. Il 16 settembre 1992, spiegano dal Gico, lo stesso Cattafi viene intercettato mentre racconta di aver partecipato ad un importantissimo summit mafioso – tenutosi presumibilmente ad Erice, nel trapanese – dove sarebbe avvenuto il cosiddetto “accordo delle cinque monete”, quello che presumibilmente costituisce il patto tra Cosa Nostra, “Le Milieu” (la mafia marsigliese) le mafie del Nord e Sud America e quella cinese.
Se Cattafi abbia veramente partecipato all'incontro non è dato sapere, ma se così fosse questa sarebbe un'ulteriore conferma della sua importanza nell'organizzazione, non solo a livello locale evidentemente (non tutti gli affiliati possono permettersi il lusso di partecipare ai summit, d'altronde).
Con un “interessato” (più o meno occulto) di questo calibro, è facile intuire – come scrive sempre Antonio Mazzeo in un altro articolo - in che modo sia stato possibile per una società «ufficialmente “inattiva” e con zero dipendenti a carico, ottenere in una decina di mesi ciò che non è stato concesso in tre anni ad una S.p.A. Con fatturato annuo di 210 milioni di euro, 113 manager e più di 1.000 impiegati».
Il progetto venne infatti approvato con voto unanime della maggioranza di centro-destra e dell'opposizione (costituita, nel barcellonese, da Partito Democratico ed Unione di Centro), a riprova che di fronte ai “grandi business” quello che in politica si chiama “fare opposizione” non è altro che una sceneggiata.
È la Dibeca a ritrovarsi – per effetto di quella rivalutazione del terreno di cui parlavamo in apertura – a ritrovarsi un patrimonio fondiario stimato in 5.074.500 euro, con un plusvalore dell'ottocento per cento rispetto al 2005, quando i terreni vennero acquistati dall'Opera San Giovanni Bosco dei Salesiani del comune barcellonese, che li aveva ricevuti in donazione dal nonno dell'avvocato, che decise di seguire da vicino la vicenda legale in quanto i Salesiani ne avrebbero fatto una cattiva gestione. 800.000 euro per i 5,74 ettari attualmente nella disponibilità della famiglia ed il contenzioso venne chiuso.
La “trattativa” barcellonese. A questo punto la Dibeca, diventata quindi proprietaria dei terreni, si accorda con la calabrese “Grande Distribuzione Meridionale S.p.A.”, che nel Sud gestisce alcuni ipermercati della catena Carrefour tra Calabria e Sicilia, numerosi supermercati dei marchi Quiiper (gruppo PAM), Dìperdì (gruppo Carrefour) e Docks market, anch'essa controllata dalla multinazionale francese, con un contratto di comodato d'uso dei terreni che tre anni dopo viene risolto per problemi legati ad una serie di condizioni su cui si basava l'accordo e che non si sono verificate, e quello che sembrava essere un affare (per tutti) con parecchi zeri sembrò d'un tratto andare in fumo.
Cemento – e dunque tutto il suo indotto, movimento terra e affini compreso – piani regolatori, posti di lavoro (molti) e dunque possibilità di applicare quell'antica regola della politica per cui “un posto di lavoro un voto”.
Quello era un treno che non poteva essere perso.
Così si decide di cambiare la titolarità della concessione edilizia, che dunque passa nelle mani della Dibeca, e questo è il secondo momento evidenziato dal Tribunale in cui il Comune – attualmente governato dal centrodestra di Candeloro Nania – in cui le istituzioni locali si permeabilizzano alle infiltrazioni criminali, privilegiando «non appena gli è possibile, rapporti economici con soggetti che, direttamente o indirettamente, risultano contigui, se non intranei, ad ambienti criminali locali di natura mafiosa». Il primo momento, lo abbiamo visto in precedenza, avviene quando viene stipulato il contratto di locazione di via Operai, dove al numero civico 72 il Comune decide di insediare gli uffici dell'Acquedotto e degli Impianti Sportivi.
Negli ultimi anni sempre più si parla della “Trattativa”. Quella tra Cosa Nostra – negli anni Novanta la più forte organizzazione criminale italiana, nella cui ombra si formò quello che oggi è l'impero della 'ndrangheta calabrese – e le istituzioni centrali di questo paese. Quella, appunto, che necessita di essere scritta con la maiuscola. Ci sono però tante altre trattative, molto meno importanti per le sorti dello stato centrale ma che permettono di mantenere in piedi il potere politico-mafioso locale, che sia quello barcellonese, di Catania, di Trapani o quello di Milano, Roma o Reggio Calabria e Napoli. Forse è su queste che bisogna porre l'attenzione più importante, dove non ci sono passaggi di pezzi di carta sottobanco ma contratti, ufficiali e depositati con tanto di firme, che permettono di fare tutto alla luce. D'altronde questa è una storia vecchia, esattamente come quella della “Trattativa”. È quella vecchia storia del seguire la pista dei soldi, sporchi o “lavati” che siano. È quella vecchia storia, d'altronde, che insegnava più o meno negli stessi anni il giudice Giovanni Falcone.
(foto: enricodigiacomo.org)
Andrea Intonti