Estero
Bahrain: sfumano le speranze di riforma, e aumentano i sentimenti anti-statunitensi
MANAMA, 24 GIUGNO 2012 - Nel grande calderone delle «rivoluzioni arabe», le proteste in Bahrain – in nome di più equità sociale e libertà, e contro la corruzione dilagante – sono tra le meno seguite dall'opinione pubblica occidentale. Forse perché finora esse non sono riuscite a mettere seriamente in crisi la monarchia al potere, o perché non si sono ancora trasformate in una guerra civile vera e propria come in Siria; ma la ragione più convincente è che qui il regime sunnita gode di un appoggio particolarmente solido da parte di Stati Uniti e Arabia Saudita, che lo considerano un pezzo fondamentale nella strategia di contrasto all'Iran.[MORE]
Poco importa, di fronte a questi interessi geopolitici, che la dinastia regnante abbia costantemente discriminato gli sciiti, maggioranza nel Paese. La minoranza sunnita gode infatti di privilegi palesi, specialmente per quanto riguarda le assunzioni nella pubblica amministrazione, ai livelli manageriali più alti e nell'esercito.
Dal punto di vista del confronto con l'opposizione, è vero che il principale partito anti-governativo (il Wifaaq) non ha mancato di ottenere sistematicamente un'ampia rappresentanza in parlamento, nonostante le regole elettorali certo non favorevoli; ma l'espressione del dissenso resta una faccenda più che rischiosa. Una legge sulla stampa del 2002, ad esempio, punisce in maniera molto dura la pubblicazione di articoli che «minaccino la sicurezza nazionale» o «insultino il re» (espressioni, come si noterà, alquanto vaghe).
In questo contesto, le proteste che continuano da sedici mesi hanno incontrato la dura repressione delle forze di sicurezza, con il verificarsi di dozzine di omicidi e numerosi casi di tortura. Ad oggi, ventuno dei principali dissidenti rimangono in carcere. Il regime, come si diceva, si sente le spalle coperte. Consistenti reparti sauditi hanno dato manforte all'azione di contrasto delle proteste e sono rimaste in Bahrain, gettando le basi per la trasformazione del Paese in una sorta di protettorato del potente vicino.
Gli Usa, dal canto loro, mantengono un atteggiamento ambiguo. Chiedono una stagione di riforme, ma non hanno alcuna intenzione di mettere in dubbio la loro amicizia con la monarchia. Alcuni istruttori statunitensi sono stati inviati sul posto con l'obiettivo di riformare le pratiche violente diffuse presso le forze di polizia, ma l'operazione ha tutta l'aria di essere un palliativo per salvare faccia e apparenze. Come ha sottolineato uno di questi ufficiali al NY Times, «è un compito immane, trasformare la cultura: se non si verifica un cambiamento politico, quello che stiamo facendo sarà del tutto inutile». Nel frattempo, l'amministrazione Obama ha ripreso a vendere armi al regime, dopo una sospensione di sette mesi. Anche se la Casa Bianca ha affermato che le vendite non includono gas lacrimogeni e altro equipaggiamento destinato al «controllo delle folle», inevitabilmente l'antipatia dei dimostranti nei confronti degli States è andata crescendo. Nelle schermaglie che ormai ogni notte vedono scontrarsi giovani oppositori e reparti antisommossa governativi, hanno fatto la loro comparsa cartelli in inglese, che chiedono agli Usa di «smettere di armare gli assassini».
Appare dunque chiaro che la soluzione dei conflitti in corso continua ad essere lontanissima, anche perché l'ala intransigente del regime si è recentemente imposta su quella riformista. Le blande pressioni americane sul governo per l'assunzione di un atteggiamento più conciliante di fronte alla protesta sono destinate a cadere nel vuoto, e suonano sempre più come dei semplici pro forma. I dimostranti lo sanno benissimo. E le bandiere a stelle e strisce cominciano a venire bruciate nei villaggi sciiti.
Michele Barbero
(immagine da gctoscana.eu)