Estero
Assad-Erdogan, botte e risposte tra due vecchi "amici"
ISTANBUL, 8 OTTOBRE 2013- Negli ultimi giorni, il presidente siriano Bashar al-Assad ha intrapreso una sorta di maratona mediatica, ai fini di mostrarsi disponibile, su diversi fronti, alla cooperazione con gli osservatori internazionali. Si è espresso in particolare disposto a dismettere il proprio arsenale chimico militare, e a negoziare con i ribelli, ma solo quando si saranno decisi a deporre le armi: «dal mio punto di vista, un’opposizione politica non dovrebbe possedere armi. Se qualcuno si decide a deporle, se ne può parlare». La faccia pulita del presidente si è espressa anche riguardo alle accuse mosse da Washington, sul famigerato attacco al gas nervino, sostenendo che Obama non ha uno straccio di prova a riguardo, e ribadendo la teoria, sostenuta anche dall’amica Russia, che in realtà l’attacco è stato perpetrato dai ribelli. Il democratico presidente ha anche ammesso che nutre seri dubbi sulla sua prossima candidatura alle elezioni siriane, previste per il 2014: «se è venuta a mancare la volontà popolare a mio favore, non concorrerò», ha dichiarato.
Le recenti interviste hanno visto Assad impegnato in dettagliate interviste al Der Spiegel, lo scorso 6 ottobre, e all’Halk TV, canale d’informazione turco, notoriamente acceso oppositore delle politiche di Erdoğan. In quest’ultima, particolare occasione, Assad non ha esitato a togliersi più di un sassolino dalla scarpa, rispondendo a tono alle frequenti accuse mosse dal leader turco sin dall’inizio della guerra civile siriana. Erdoğan, filo-americanissimo negli ultimi tempi, s’è mostrato sempre come un ferocissimo critico dell’operato di Assad, si è sempre dichiarato vicino ai ribelli siriani, e nei giorni in cui si vociferava del possibile intervento militare in Siria, sembrava non vedesse l’ora di scagliarsi su Damasco, al fianco del Gigante Obama.
Dal canto suo, Assad ci ha tenuto a sottolineare le operazioni di supporto mosse da Ankara verso i ribelli, compresi i gruppi terroristici, specie nel favorire sostegno logistico nei 900 km di confine che i due paesi condividono:
«La Turchia pagherà caro il sostegno ai ribelli che vogliono spodestarmi. In un futuro prossimo, questi gruppi avranno un impatto cocente sulla Turchia. Non si può usare il terrorismo come carta, e mettersela poi in tasca. Poiché esso è come uno scorpione che non esiterà a pungere alla prima occasione». E ancora: «Tutto quello che Erdoğan ha detto in passato sulla Siria, non è altro che un cumulo di menzogne. Erdoğan non sta facendo altro che supportare il terrorismo». E per finire, il dessert, con le accuse all’AKP, e le sue politiche conservatrici da bravo partito filo-islamico, di avere un’agenda settaria: «Prima della crisi, Erdoğan non ha mai fatto menzione a riforme o democrazia, non s’era mai interessato a questi temi. Erdoğan voleva soltanto che i Fratelli Musulmani tornassero in Siria. Questo era il suo principale scopo».
Sin dall’inizio del secolo scorso, i due paesi hanno sempre tenuto calda quella lunga linea di confine, conoscendo solo un discreto periodo di pace e cooperazione, che sembrava volesse portare a qualcosa di propriamente solido, ma che è durato l’arco di un paio di decadi, dal 1998 alla guerra civile siriana.
Nel 1938 fu la provincia di Hatay ad infuocare la disputa. Al tempo, la provincia si dichiarava indipendente dall’occupazione francese, e un anno dopo fu indetto un referendum, attraverso il quale fu proclamata un’auto-annessione al territorio turco. La Siria, che reclamava la regione come storicamente propria, ha sempre accusato il referendum di essere completamente fasullo e pilotato, e a tutt’oggi le mappe siriane non riconoscono Hatay come “regione turca”, bensì viene identificata ancora con il nome di Liwaaa Aliskenderuna. (C’è da aggiungere, comunque, che nello stesso 1938, ossia prima del referendum, truppe turche, con il beneplacito del governo francese, confinarono dalla regione un’enorme percentuale di armeni e di arabi aleviti…).
Altra disputa coinvolge le “politiche dell’acqua”, comprese nel piano del GAP (il progetto per ammodernare il sud-est dell’Anatolia), che ha previsto la costruzione di ben 19 dighe sul Tigri e l’Eufrate a favore dell’area, e che starebbero arrecando un ingente danno alle risorse idriche siriane.
Lo stesso radicato secolarismo turco, la propensione verso l’occidente e le ottime relazioni con gli Stati Uniti, sono state sempre viste come sospette da Damasco, Teheran e Baghdad. Solo la matrice islamica dell’AKP e il non-intervento, al tempo, in Iraq, hanno placato le perplessità dei vicini di casa.
Ennesima tensione nasceva, invece, dall’accusa di Ankara a Damasco nel supportare organizzazioni terroristiche quali il PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e l’ASALA (l’Esercito Segreto Armeno per la Liberazione dell’Armenia), pronte a mettere su attacchi in territorio turco. In particolare, i due paesi erano sul piede di guerra negli anni ’90, quando la Siria ancora dava sicuro rifugio al leader del PKK Abdullah Öcalan. Nel 1998, Abdullah fu definitivamente espulso dalle autorità siriane, e l’anno successivo fu firmato il Trattato di Adana, in base al quale la Siria s’impegnava a non dare più rifugio ai militanti curdi. Cominciò, da quel momento, un’epoca felice, con ripetute visite dei vari presidenti da entrambe le parti, e l’avvio di floride relazioni commerciali.
Ma tutto, dicevo, non ha avuto un esito duraturo. Ora i due nemici-amici si divertono a battibeccare e a giocare al rilancio delle accuse, nel mentre si sviluppa la partita più importante su tutto il territorio internazionale.
(foto: todayszaman.com)
Dino Bonaiuto (corripondente dalla Turchia) [MORE]