"Arbitrage - La frode" con Richard Gere, patriarchi senza legge a Wall Street
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"Arbitrage - La frode" con Richard Gere, patriarchi senza legge a Wall Street

sabato 30 marzo, 2013

Arbitrage - La frode, di Nicholas Jarecki - La recensione. Se il mondo occidentale è immerso ancora da capo a piedi nelle sabbie mobili della crisi economica, pare che Richard Gere la propria crisi di mezza età l’abbia superata più che brillantemente: queste sono le “morali” che si possono ricavare dal film La frode di Nicholas Jarecki. Un film, peraltro, proprio sulle labili morali del capitalismo, sulla progenie degenere dei vari Bernard Madoff – per fare nomi e cognomi reali – e Gordon Gekko, per riesumare il vivissimo Wall Street di Oliver Stone: non solo, e non riduttivamente furbi speculatori o broker arrivisti dalla broken ethic, ma convintissimi fabbricatori di una nuova etica da Impero dei Lupi, ribelli luciferini persuasi in buona fede (?) che “se non fai così, non sopravvivi”. Il problema è che nel loro inferno trascinano anche gli angeli non ribelli.[MORE]

Questo capita a Robert Miller (Gere), patriarca di una società in odore di scandalo finanziario, a causa di una vecchia frode dovuto al fallimento di un investimento in miniere di rame, ma prossimo a salvare capra e cavoli con una vendita strategica. Una bella facciata, come quella della famiglia: il party del brillante sessantenne, con la devota ma sveglia moglie (Susan Sarandon), la figlia contabile (Brit Marling) ed il codazzo di pseudo-amici filantropi e ricchi sfondati reggi-champagne, è adeguatamente laccato. La musica non è finita, ma una chiamata "di lavoro" costringe Robert ad un congedo anticipato: lo attende un cheek to cheek con l’impaziente, bellissima amante (Laetitia Casta), artista che lo stesso magnate sovvenziona per istinto da investitore o per ormoni. Poi, fuitina romantica ed incidente in auto: qualcuno ci lascia le penne, qualcun altro potrebbe rimetterci l’Impero e la famiglia. Si mette a tacere il tacibile, di adulterino e di fraudolento, tra avvocati, onesti scagnozzi di Harlem, pescicani e super-avvocati: ma un segugio (Tim Roth) indaga.

Come il tycoon finisce nel typhoon: è questa una buona sintesi de La frode. Miller\Gere è il deus ex machina, ma un doppio guasto meccanico, agli ingranaggi familiari e finanziari, produce l’inceppamento drammatico. Nel dialogo chiave con la figlia, contabile alla resa dei conti, si stringe come un nodo alla gola hitchcockiano l’intreccio tra pubblico e privato, in un bellissimo campo e controcampo con la figlia alzata, aspirante parricida, ed il padre stancamente adagiato su una panchina, mega-direttore dallo scranno di cristallo, più in basso di quegli occhi inquisitori, nella bassezza della propria morale del compromesso capitalista: “è illegale”, dice la figlia sui conti truccati, “ed io sono il tuo partner” – “non sei il mio partner. Tu lavori per me! (…) Tutti lavorano per me!”, gli fa eco il padre-padrone. Lo sfilacciarsi del rapporto padre\figlia assurge ad immagine emblematica dello sfaldarsi di ogni vincolo solidale, di ogni ipotesi di coesione civile nella società capitalista, a partire dalla crisi del nucleo fondante della società stessa, cioè la famiglia.

Sono il patriarca. Questo è il mio ruolo. Devo giocarlo” – suona molto diverso da quel “sorry” che la figlia vorrebbe, in una vana e disperata ambizione di umanità (molto brava la giovane Brit Marling). È una gabbia, quella costruita dal magnate, che si vorrebbe spacciare per griglia necessaria, per imposizione dei tempi, per funzionamento inevitabile che permette il sostentamento di tanti dipendenti, il mantenimento della serenità familiare e persino l’attività filantropica – che in realtà il tycoon liquida con sprezzante sufficienza solo a cose fatte, firmando gli assegni per gli ospedali. Paradosso: malato è lui, la sua etica del denaro, del voler comprare tutto e del voler dare a tutto un costo, dal giovane ragazzo di colore di Harlem (Nate Parker), per il cui silenzio vorrebbe investire come in un titolo di borsa, alla stessa amante, uno schianto di Laetitia Casta fragile come un parabrezza schiantato sull’asfalto, con cui Miller vorrebbe far pace comprandone due quadri alla mostra a cui non ha potuto presenziare per impegni di lavoro. Le tavole della legge del patriarca, dunque, sono solo assegni in bianco di un’anima nera.

È singolare, e strategicamente intelligente, il modo in cui il regista Nicholas Jarecki abbia tessuto la trama di alternative ed antagonismi al magnate: gli esempi positivi non sono mai davvero positivi, costretti essi stessi a compromessi per spazzare via il fango di Miller che rischia di travolgere tutto nel tifone. Il giovane ragazzo di Harlem – non a caso, un covo criminale – “is not like us”, dice Miller\Gere, perché è fondamentalmente onesto, inattaccabile: eppure non può essere “legale” fino in fondo, perché il senso dell’onore gli impone di proteggere, a costo di dichiarazioni mendaci, la colpevolezza del riccone, che tempo prima aveva pagato le cure mediche al genitore morente, dipendente d’azienda. La moglie (una controllata Susan Sarandon) pensa al bene della figlia e delle fondazioni di carità: ma per farlo, diventa una ricattatrice ed una falsa testimone. Il poliziotto – un consumato Tim Roth – lotta per la verità attraverso false prove, è una sorta di infernale Quinlan, privato anche del proprio titanico ribellismo: i nuovi “titani”, i nuovi luciferini ribelli che regnano nell’Inferno di Wall Street, col copyright sulla finta morale, sono Miller e soci. Il finale semi-aperto, dubitoso, con studiata ellissi, è un mirabile gioco di apparenze: Richard Gere partecipa all’ennesima fiera delle vanità, una cena con delitto nascosto, incassando un premio per il proprio filantropismo, nel gelo – ben nascosto ai commensali – di una figlia dal cuore infranto e di una moglie che lo ha messo alle strette.

Un inferno di ghiaccio, ma anche di cristallo: così viene a definirsi La frode di Nicholas Jarecki, una giungla degli indici di borsa, in cui si levano indici accusatori incrociati di poliziotti impotenti, desperate housewives, angels of Harlem, avvocati del diavolo, presieduti da diabolico Richard Gere, scagionato dai tribunali ma auto-condannatosi alla solitudine. Anche Mosè si scotta nel roveto.

Titolo originale: Arbitrage
Regia: Nicholas Jarecki
Interpreti: Richard Gere, Tim Roth, Susan Sarandon, Monica Raymund, Brit Marling, Laetitia Casta, Josh Pais
Origine: USA, 2012
Distribuzione: M2 Pictures
Durata: 107’

(in alto a sinistra: il poster di Arbitrage)

Antonio Maiorino
Critico d'arte e di cinema
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