Cronaca
Ad un passo dal gotha. Quando Provenzano si offrì allo Stato
PALERMO, 29 APRILE 2012 – Due milioni di euro ed il silenzio sulla notizia per trenta giorni. Sono queste le condizioni fissate dall'allora vertice più alto di Cosa Nostra: Bernardo Provenzano. “zu Binnu”, infatti, agli inizi del nuovo millennio si era arreso, o almeno questa era la deduzione più logica derivante dalla trattativa intavolata con lo Stato, tra il 2003 ed il 2005.
A dare la notizia è Rocco Vazzana sull'ultimo numero del settimanale Left (qui un'anticipazione).
Ci sono stati almeno tre incontri – racconta l'articolo – tra un emissario del boss, un commercialista di cui non si conosce l'identità, e gli alti vertici della Direzione Nazionale Antimafia, che proprio in quegli anni videro il passaggio di testimone da Pier Luigi Vigna all'attuale titolare della carica, Piero Grasso.
È proprio quest'ultimo, lo scorso 14 dicembre, a raccontare questa storia. L'occasione è l'audizione del Consiglio Superiore della Magistratura, che stava indagando su Alberto Cisterna – che di Grasso era il vice – accusato dal collaboratore di giustizia Nino Lo Giudice http://www.infooggi.it/articolo/indagato-cisterna-procuratore-aggiunto-dna/14506/, meglio noto come “Nino il nano”, che nell'ottobre 2010 si auto-accusò di tutti gli attentati ai magistrati di Reggio Calabria pur senza essere in grado di spiegarne il movente, di aver concesso i domiciliari al fratello Maurizio in cambio di denaro. Notizia che viene smentita da quest'ultimo attraverso una serie di note scritte sul social network facebook[MORE].
«Quando nell'ottobre del 2005 presi il posto del procuratore Vigna» - ha raccontato Grasso davanti al Csm - «mi fu prospettata, da parte dei colleghi, la situazione di un informatore, di un qualcuno che voleva rendere delle dichiarazioni e collaborare per la cattura di Provenzano». Un informatore che comunque, precisa l'attuale reggente della Procura nazionale antimafia «sembrava più un truffatore che altro. Infatti feci questo colloquio investigativo ma poi nel tempo scoprii che altri due in precedenza erano stati fatti da Vigna e dai sostituti Cisterna e Macrì».
Nel primo dei tre incontri di quella che senza troppa fatica si può chiamare “trattativa”, quello in cui Vigna è ancora alla Procura, il boss detta le regole per la resa: una somma di denaro che si aggirava intorno ai due milioni di euro, silenzio stampa per un mese – il tempo di rivelare ciò che sapeva, secondo la ricostruzione fatta da Vincenzo Macrì al settimanale – e il divieto di avere a che fare con giudici di Palermo, motivo per il quale gli interrogatori vengono fatti, oltre che da Vigna e Grasso, anche da Cisterna e Vincenzo Macrì, procuratore generale di Ancona, entrambi calabresi. I servizi segreti, chiamati in causa nella vicenda dal procuratore Vigna, assicurano che i soldi si trovano, anche perché servirebbero per far parlare non certo uno “scassapagliare” qualunque.
L'ultimo incontro è del novembre 2005. Pier Luigi Vigna è in pensione. Al suo posto ora c'è Piero Grasso, che a Palermo aveva intanto indagato sul viaggio che Provenzano fece a Marsiglia, per curarsi. Viaggio che, come sappiamo, porterà poi all'omicidio di Attilio Manca, trentaquattrenne, all'epoca – siamo nel 2003 – tra i pochi urologi a saper fare un intervento alla prostata con l'innovativa tecnica della laparoscopia. È grazie a quel viaggio, ricorda Grasso, che gli investigatori erano riusciti ad ottenere il Dna del boss.
Poi qualcosa si inceppa. Dopo il terzo incontro l'informatore non si fa più vivo e tutto sembra saltare.
O forse no. Perché quattro mesi dopo, nel marzo 2006, telegiornali, radio e carta stampata danno la notizia: Bernardo Provenzano è stato catturato. Dopo quarant'anni di latitanza gli uomini del Servizio centrale operativo e della Mobile di Palermo lo trovano nel suo territorio, a Corleone.
La domanda, a questo punto, non può più rimanere in silenzio: si tratta davvero di una cattura frutto del lavoro degli inquirenti? O il boss è stato fatto catturare? Insomma: se Provenzano invia un suo uomo – non organico a Cosa Nostra, ma comunque un suo diretto referente, almeno stando a quanto riferito da questo stesso intermediario – non lo fa certo per tastare il polso ai suoi “cacciatori”. Tanto meno, dall'altro lato, il boss avrebbe potuto presentarsi di fronte alla Procura, bussare e costituirsi così, come uno qualunque. Per una cosa del genere anche la “scenografia” doveva essere preparata con cura.
C'è un'altra domanda a cui, forse, sarebbe bene dare una risposta. Se di “trattativa finale” - come titola il settimanale Left in copertina – bisogna parlare, allora è il caso di ricordarsi che le trattative, di solito, si fanno almeno in due. Le condizioni per la resa – i vantaggi per lo Stato, per così dire – li conosciamo. Ma dall'altro lato quali sarebbero stati i vantaggi per Cosa Nostra? Perché è ovvio che qualcosa, in un modo o nell'altro, le famiglie mafiose ci avrebbero (o hanno?) guadagnato.
La pista calda dei pizzini. Intanto a Trapani, durante l'udienza di venerdì del processo contro Matteo Messina Denaro ed altri, l'ex capo della Squadra Mobile di Trapani, Giuseppe Linares – appartenuto alla squadra di “cacciatori” messa insieme dal Viminale proprio per catturare il boss trapanese – ha raccontato che nel marzo di due anni fa il boss poteva essere arrestato, ma la Procura di Palermo e la Polizia decisero di arrestare gli uomini che lo circondavano, mentre i poliziotti di Trapani erano sicuri che seguendo i pizzini che di lì a poco dovevano essere inviati a Messina Denaro, oggi avremmo un altro appartenente al gotha di Cosa Nostra gentilmente ospitato dalle patrie galere (per dirla alla Pino Maniaci).
(foto: dirittiepartecipazione.it)
Andrea Intonti