Editoriale
Take a Gezi on the wild side: Taksim un anno dopo [Fotoreportage]
“Nel 1995, la Banca Mondiale scrisse una relazione, nella quale ci chiedeva di trasformare una o due città in metropoli. Perché le metropoli oggi forniscono forza lavoro per l'industria dei servizi, e sono facili mercati per i consumatori”
Mücella Yapici
Segretario Generale
dell'Associazione degli Architetti in Turchia
(Sezione di Istanbul)
In principio fu un Parco, e tale è rimasto. Fisicamente, come ultimo spazio verde nel cuore di quel che resta di una Costantinopoli in rapida cementificazione, ma pure agli occhi del mondo, che un anno or sono hanno assistito increduli a un'esplosione dilagante di masse di manifestanti e violenza incontrollata.
Fisicamente un parco resterà, così come un mese or sono, la Corte Suprema turca ha stabilito, e verrà sottratto al piano urbanistico di sradicarlo letteralmente, a favore di moschee e centri commerciali; e agli occhi del mondo pure, solo un parco, o meglio un Park, Gezi Park, ormai simbolo indiscusso del detonatore sociale turco. Un'area microscopica, a dir la verità, e tra l'altro tenuta pure male, tra un verde smunto e un'accoglienza poco alla turca, che non troverebbe logiche alla rottura molecolare di dispositivi tesi da troppo tempo.
È noto quanto sarebbe grossolano parlare di “Solo Gezi” e “Solo un parco”, è un po' meno noto comprendere quanto profonde siano le radici stesse di Gezi, che a un'analisi più attenta non può svincolarsi da semantiche ignote figlie dell'ultimo secolo, e ai frutti più maturi di ciò che abbiamo imparato a chiamare Rivoluzione Neoliberista, dove Istanbul tutta s'è erta a emblema supremo.
Solo un parco, sì, ma non solo.
“Mi piacerebbe porle una semplice domanda: lei potrebbe costruire un hotel nel Central Park di New York?”
Mücella Yapici
Cinque giorni di un'ignara vigilia
27 Maggio 2013 – Ce ne erano soltanto 70 di manifestanti a Gezi Park, un lunedì di fine maggio a Istanbul. 70 impavidi pronti a fronteggiare i bulldozer in assetto di demolizione. La loro presenza riesce ad allontanare i giganti cattivi, e dozzine di vittoriosi trascorrono la notte nel parco, pacifici, disarmati, tirando su due enormi tende, portando con sé chitarre, e diffondendo il verbo del loro attivismo ai passanti. La Turchia aveva conosciuto i suoi Cavalieri di Malta, ma nessuno ne parlava, nessuno lo sapeva. Manco loro.
28 Maggio 2013 – Il gruppo di attivisti presenta una petizione per la protezione del parco, mentre verso le 13.30 i bulldozer fanno presto ritorno, supportati da truppe di sgombero che incalzano la resistenza con timidi lanci di lacrimogeni. È sufficiente che un solo manifestante si arrampichi su un albero per scongiurare nuovamente la demolizione. Nel frattempo entrano in gioco anche parlamentari dell'opposizione, in particolare Sirri Sureyya Onder del BDP e Gulseren Onanc del Partito Repubblicano, in supporto alla protesta. Viene indetta una manifestazione per le 19.00, e i manifestanti passano la loro seconda notte nel parco. L'aria sembra piuttosto rilassata, ma non riesce a rendersi del tutto immune ai germi di una endemica tensione.
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29 Maggio 2013 – Cresce il numero di manifestanti, e nel mercoledì prima della tempesta Gezi Park è tutta un'esplosione di cultura: un'atmosfera da festival, con concerti e proiezioni improvvisati. In molti piantano fiori come simbolo di resistenza. La notte cala sulle tende di Gezi, che ora ospitano più di 150 persone.
30 Maggio 2013 – Probabilmente per una forma congenita di riluttanza da parte della polizia, a cui non andava giù di lasciare il fulcro turistico della città in quello stato, i manifestanti si sono meritati una sveglia ai primi accenni dell'alba, prima ancora che il muezzin si pronunciasse. Una sveglia repentina, chiassosa e gassosa, condita dal lancio di lacrimogeni. E nel caso il messaggio non fosse stato chiaro, la polizia dà pure fuoco alle tende degli occupanti. A parco sgomberato, riprende la demolizione fino alle 7.50. Ancora una volta Onder piazza il proprio corpo di fronte ai bulldozer, in stile Tienanmen. Trapela qualche notizia del raid mattutino e della violenza della polizia, sufficiente a che tanta gente comincia a raggiungere il parco. La notte del 30 si dorme in massa, a Taksim.
31 Maggio 2013 – ...e allora la polizia ci riprova, ma in maniera più feroce, ora che deve sgomberare diverse centinaia di persone. E vieta pure l'accesso al parco alla stampa. La violenza però viene registrata passo passo, e a mezzo Twitter giungerà all'istante fino all'ultimo angolo anatolico, per poi in breve prendere il volo in tutto il pianeta. La mattina del 31 piazza Taksim diventa ufficialmente l'etimo multiforme attraverso cui s'è imposta in mille immaginari collettivi, territorio conteso, simbolo di protesta, epicentro di rabbia, sede della più grande mobilitazione di massa della storia turca recente, luogo di sangue, magnete di masse permanente, custode della propria identità e della democrazia turca tutta, sottoposto a marce e cortei e fiamme e acqua dai cannoni senza sosta negli ultimi 12 mesi.
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La Turchia tra proteste e Islam
“Nel 1980 si era d'accordo nel ritenere che Istanbul non potesse contenere più di cinque milioni di persone. Oggi tutti dicono che siamo arrivati a 15 milioni di abitanti. C'è un'assenza di istituzioni capaci di programmare su larga scala, o che sappia valutare e studiare queste tendenze. Ad ogni modo, questi dati mostrano che la popolazione di Istanbul raggiungerà la cifra di 25-30 milioni di persone entro il 2023. Ma tutti noi sappiamo che la geografia della città non può reggere tutto questo”
Huseyin Kaptan
Architetto / City Planner
La nuova Taksim prevedrebbe l'eliminazione di tutti gli accessi pedonali, a favore di una visione più car-friendly, come è stata più volte definita. Un nuovo modo di concepire lo spazio anche a livello turistico, dove una toccata-e-fuga prevedrebbe una sosta di una manciata di minuti, compere e acquisti e souvenir, e via verso un'altra cattedrale dello shopping, nel nome di un'onnipotente gentrificazione che sta proverbialmente allungando i propri tentacoli su tutta la metropoli. Non da meno sono i progetti, che pure hanno scatenato rumorose proteste – ma sotto fiochi riflettori – nel resto della città: tra i più discussi, il terzo ponte sul Bosforo, che completerebbe la deforestazione della città, con piena noncuranza della viabilità da un punto di vista ecologico e sociale. Per non parlare del terzo aeroporto – che ambirebbe ad essere il più grande del mondo, o la moschea più grande del paese, o la costruzione di un canale che dividerebbe in due la parte europea, progetti di un'audacia che lo stesso Erdogan – forse in preda all'eccitazione – non ha esitato a chiamare “folli”. E la speranza di una protesta sta tutta nell'enfatico uso del condizionale, per ora. Prima di un irrimediabile “troppo tardi”.
Occupare Gezi significa(va) occupare anche i boschi a nord di Istanbul, e i quartieri popolari di Sulukule, Tarlabasi, Tophane o Fener-Balat, tutti vittime, prima o poi, del processo di lasvegasizzazione di Istanbul, fulcro nero dei conflitti sociali nella concezione degli spazi urbani, tra le élite rampanti di una pia classe capitalista, allevata dall'autoritarismo da deriva islamica dell'AKP, sempre più tesa a chiudersi nelle proprie roccaforti urbane, contro la (povera) gente che in effetti vive, lavora, e in un modo o nell'altro frastaglia l'elettrocardiogramma di Istanbul.
Il rischio di una urbanizzazione islamica giace anche nella prevenzione dei siti della Istanbul pre-ottomana, così come denuncia tranchant Dogan Kuban, tra i più famosi architetti di Istanbul: «Non si fa altro che proteggere le moschee, con buona pace di importanti siti archeologici pre-islamici. La salvaguardia è un valore della cultura raffinato. È principalmente un aspetto della civiltà europea».
“La modernizzazione di Istanbul può essere paragonata a una operazione chirurgica tra le più delicate. Non si tratta di creare una Città Nuova in una terra vergine, ma di indirizzare un'Antica Capitale, nel processo di completare il suo cambiamento sociale verso un Futuro, attraverso cui il meccanismo e probabilmente la redistribuzione della ricchezza trasformerà le condizioni dell'esistenza”
Henri Prost
Architetto e Urbanista francese
Gecekondu Vs. Ecumenopolis
“La crescente polarizzazione nella distribuzione della ricchezza e del potere è stata indelebilmente impressa nelle forme spaziali delle città. I ricchi stanno sempre più provando a distaccarsi dalle realtà dei poveri, costantemente lottando per stabilire la legittimità della loro esistenza urbana, sulla scia delle demolizioni dei quartieri popolari e dei piani di rinnovamento. C'è un urgente bisogno di rivendicare il diritto collettivo della città, e modellare il nostro futuro urbano su basi eque e sostenibili”
David Harvey
“Città Ribelli”
2013
“Mi chiamo Ali Agaoglu! Stiamo creando una nuova area con 3,100 appartamenti. L'87% sarà destinato a spazi verdi, e ci saranno campi da golf! Io ho sempre sognato giardini al decimo piano, e ora sono una realtà! Tutti meritano di vivere in una casa con una piscina. Qui ci saranno delle piscine, e una di esse sarà lunga 130 metri! Ci sarà una piazza, un centro commerciale, tutta l'area pullulerà di vita! Con un pagamento anticipato di 1,000 TL, chiunque può prendersi un appartamento. Noi abbiamo già cominciato!”
Ali Agaoglu
Fondatore della “Agaoglu Group”
la più grande azienda edile turca
(qui in uno spot pubblicitario)
Vista dall'alto, Istanbul appare come la succulenta farcitura di un panino, di quelli maxxi. Il pane è il mare, quello Nero a nord e quello di Marmara a sud; e in mezzo, sa di scellerata speculazione edilizia e disastro ambientale incombente. Uno spuntino ben servito alle fameliche cavalcate neoliberiste, intese come emblema sommo delle più avanzate tendenze capitalistiche.
Ai tempi della nascita della Repubblica, lo sviluppo di Istanbul era concentrato tutto a sud del Bosforo. La città contava appena 700,000 abitanti, ma grazie ai fondi del Piano Marshall e il declino dell'agricoltura nelle aree rurali, si assistette a una vera e propria rivoluzione urbana. Ataturk in persona invitò l'architetto e urbanista francese Henri Prost, per avviare la modernizzazione della città. Prost rimase a Istanbul per circa 15 anni, dal 1936 al 1951, e promuovette la realizzazione degli ampi boulevard che oggi caratterizzano il centro della città, oltre a una serie di ristrutturazioni urbane che non furono del tutto immuni da critiche.
“Il dibattito è puramente nostalgico. Istanbul ha bisogno del terzo ponte,
il primo e il secondo tunnel, e più attraversamenti sul Bosforo in futuro”
Binali Yildirim
Ministro dei Trasporti
“Non è solo un ponte. È un asse che attraverserà le riserve idriche.
Se lo farà, Istanbul farà i conti con una catastrofe ambientale”
Huseyin Kaptan
Architetto / City Planner
Adiacente a piazza Taksim, Prost fece abolire completamente la caserma ottomana che dominava la piazza, concependo la realizzazione di un parco, ove si sarebbero potute ammirare le parate militari. Il parco si chiamava inizialmente Inonu Gezisi, dal nome del presidente dell'epoca, poi trasformatosi in un più semplice Parco Gezi, che fu tra l'altro negli anni parzialmente ridimensionato.
Frattanto, per far fronte alle orde degli ex contadini dell'est, e nel bisogno di nuove abitazioni, i nuovi concittadini tirarono su i cosiddetti gecekondu, neologismo tutto turco, composto da gece-, “notte”, e -kondu, “messo di colpo”, dal verbo kondurmak, “mettere all'improvviso”, che starebbe nello specifico per “edificato in una notte”, alla lettera, dato che i migranti sfruttavano un vuoto legislativo che permetteva di cominciare a costruire dopo il tramonto e poi, qualora il fabbricato fosse stato terminato prima dell'alba e le autorità non se ne fossero rese conto a tempo e forma debiti, il fabbricato restava lì dov'era. Le periferie di Istanbul furono letteralmente invase da edifici simili, i quali poi, a mezzo condono, furono in seguito del tutto legittimate. Da abitazione singola, l'etimo andò poi a riferirsi ad interi quartieri, i quali se ne andavano a spuntare come funghi lungo le nuove arterie e i ponti della città, deforestando e spingendo Istanbul sempre più a nord, e rendendo la città sempre più attrattrice di forza lavoro dall'est, facendo balzare la popolazione a oltre 2 milioni di abitanti (nel 1980).
“In Turchia, il governo interviene così tanto nei piani urbanistici che è quasi un insulto. Come può il Consiglio Municipale effettuare 4000 cambiamenti ai piani della città? Per esempio, dove un piano dice che si può costruire un palazzo di massimo quattro piani, in base a diverse considerazioni scientifiche, ti arriva un funzionario che semplicemente cancella a penna e scrive 'dieci piani'”
Oktay Ekinci
Architetto / Giornalista
“Io penso che il principale problema sia l'approccio ai progetti. A Istanbul e in Turchia in generale, coloro stessi che disegnano i progetti non ci credono. Per esempio, il piano generale per Istanbul è completo, ma il terzo ponte non vi è incluso. E nemmeno il tunnel da Harem a Kumkapi, o qualsiasi altro tunnel in costruzione. Nessuna di queste opere è nei progetti, ma sono tutte in costruzione”
Haluk Gercek
Docente all'Istanbul Teknik Universitesi
In pochi decenni Istanbul è passata da semi-baraccopoli a pura megalopoli competitiva, quasi a volersi porre come principio di Ecumenopolis, il concetto di “città globale” formulato dall'urbanista greco Costantinos Doxiadis, secondo cui le aree urbane future e le megalopoli alla fine si fonderanno, a creare un'unica città globale continua (da oikoumen-, “mondo”, e -polis “città”), così come risulterebbe dalle attuali tendenze di urbanizzazione e crescita demografica.
Una visione diversa di Istanbul si ebbe sotto Turgut Ozal, le cui politiche progressiste trasformarono presto lo spazio urbano in strumento di accumulazione di capitale. Dagli anni '80 ad oggi è in corso un processo di marginalizzazione di ciò che erano i gecekondu, demoliti e trasformati in appartamenti stile-sovietico nel nord della città, come se ogni baracca si fosse trasformata in un piano di un grattacielo, e la gente, vistasi espropriata dei mattoni che un tempo aveva messo su gece gece, fosse stata tutta trasferita in altezza, in un fazzoletto di terra, in appartamenti che manco può permettersi, e quanto più lontani dalla città che conta, in quartieri dormitorio senz'anima. Solo cemento e centri commerciali, cemento e centri commerciali... La periferizzazione dei poveri, in pratica, gestita dalla TOKI, acronimo che starebbe per “Amministrazione per le Abitazioni di Massa”, legata alla Presidenza della Repubblica di Turchia.
Nel frattempo, ciò che furono gecekondu vengono trasformati in appartamenti di lusso delle cosiddette “gated communities”, microcittà nella città, dove la gente – o chi potrebbe permetterselo – ha accesso a tutte le proprie esigenze all'interno di aree chiuse e private, dal supermarket ai campi da golf. E più case ci sono, più persone raggiungono la città, e più persone arrivano in città più case serviranno, e più case serviranno più verranno costruite nel selvaggio nord, e più ne verranno costruite e di più servizi e strade e ponti e abbattimenti di boschi e danni al bacino idrico e metastasi edilizia si avrà bisogno. E la rapidità con cui l'Ecumenopolis corre, nella Hubris con cui il governo opera, tracotanza senza consultazione alcuna, sembra lasciare poco spazio ai dettagli, e al futuro della città.
“Se si continua così, il Mediterraneo Orientale,
il Medio Oriente e i Balcani
saranno tutti controllati da Istanbul”
Mustafa Sonmez
Economista / Scrittore
Resta, a distanza di un anno, una domanda insoluta: che fine hanno fatto i figli di Gezi? Quanto spappolati restano i cuori scagliati con passione per un anno intero, contro i muri di gomma di chi ha semplicemente voltato lo sguardo e continuato la propria cavalcata governativa, indifferente?
Revolution in a Coma: tre domande a Baris Yildirim*
Nel tentativo di ripercorrere le radici delle proteste dell'anno scorso, quanto pensa siano connesse alla speculazione edilizia di Istanbul, e in che modo.
Gezi Park non ne è soltanto associata, ma è una diretta conseguenza delle politiche urbane del sistema capitalista dominante, ciò che i Cayanisti chiamano il “capitalismo distorto”, in Turchia. La speculazione edilizia è senz'altro parte di queste politiche, ma la seconda non è limitata al primo. In tutta onestà, non è che devi essere uno speculatore per comprendere il valore di uno spazio come il parco Gezi, che sta letteralmente al centro di Istanbul, e quindi della Turchia tutta.
Pensa sia giusto parlare di Rivoluzione Fallita, o piuttosto dobbiamo parlare di “Rivoluzione in Coma”? È cambiato qualcosa, dallo scorso anno? Se sì, in che modo. Se no, in che modo.
La monografia che ho preparato su Gezi si intitola “Come se fosse una Rivoluzione” [Sanki Devrim, Nota Bene, Ankara 2014], titolo ispirato a un graffito di Gezi, “Come se la rivoluzione ci avesse fatto l'occhiolino”. Per cui, credo fortemente che bisogna parlare di Gezi in termini rivoluzionari. È fallita? Apparentemente sì, perché il sistema politico e sociale tiene ancora come prima.
Ad ogni modo, in assenza di una leadership organizzata e “bolscevica”, nessuno – o almeno nessun rivoluzionario – ha mai pensato seriamente di destituire una establishment, figurarsi un governo. Una delle profezie, durante i primi giorni di Gezi, era: “Questo movimento sarà sconfitto, ma nel modo più bello!”. Tutte le rivoluzioni falliscono continuamente prima di raggiungere il proprio obiettivo, vale a dire lo stabilire un sistema politico-sociale nuovo di zecca. Ognuna di queste sconfitte garantisce la vittoria finale.
Per cui, quando parliamo di un dato momento rivoluzionario, ciò che diventa più importante del suo successo è che noi – come popolo – abbiamo appreso qualcosa da esso. Gezi ci ha lasciato delle grandi lezioni, che probabilmente avremmo imparato nel giro di dieci anni.
Dall'anno scorso più volte, centinaia di migliaia, a volte milioni di persone si sono riversate in strada in occasione di attacchi da parte delle trasformazioni urbane (un esempio, alla METU), per la morte di Berkin Elvan, per gli scandali di corruzione, per il “massacro dei lavoratori” di Soma e per numerosi altri contesti. Questa parte del mondo ha assistito ai movimenti di massa popolare tra i più attivi ed entusiasti in un solo anno. Tipi di mobilitazione erano confinati solo alle celebrazioni e alle dimostrazioni in occasione del Primo Maggio o del Newroz. Milioni di persone hanno adesso un'esperienza di guerriglia urbana, e solo grazie a Gezi. Cosa chiedere di più?
Pensa sia possibile concatenare gli eventi, dalla rivoluzione del paesaggio, alle divisioni sociali, per poi giungere alle proteste di massa in tutte le città turche?
L'oligarchia turca, negli ultimi anni, si è ritrovata a essere fortemente dipendente dalle costruzioni nelle aree urbane. La TOKI è praticamente diventata un Ministero (dell'Ambiente e dell'Urbanistica!), e il presidente del primo ne è diventato il ministro. Ciò evidenzia quanto importante siano l'edilizia urbana e gli affari che vi ci ruotano intorno. Dunque, non solo l'impulso ma anche la base economica di Gezi fonda sulle politiche urbane, che sistematicamente spingono gli indigenti fuori dalle città.
* Baris Yildirim è uno scrittore, commediografo e critico d'arte, ma anche sceneggiatore, traduttore e giornalista, tutte attività connesse alla politica. Ha preso parte alle proteste di Gezi nelle città di Ankara, Smirne e Diyarbakir. Ha appena completato il suo primo libro, “Come se fosse una Rivoluzione”, sulle proteste in Turchia dello scorso anno. Attualmente vive e lavora ad Ankara.
Supporto fotografico a cura di: Carlo Rainone
Dino Buonaiuto