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JOY DI DAVID O. RUSSELL ha sfoderato una smagliante ed eclettica Jennifer Lawrence, ma nel complesso non ha colpito molto. Proviamo a guardarlo con occhi diversi e rivalutarlo contro le bocciature frettolose.
Non ci sono più le attese di una volta. Nell’era dei social, la messe d’informazioni disponibili sui film in uscita è sempre più vasta. E varia: dalle foto dal set all’intervista, dal teaser al trailer, dal commento amichevolmente estorto all’attore alla locandina, e così via. L’attesa di Joy ha giocato a sfavore di David O. Russell, perché ha preparato il terreno con la scettica ironia montata dopo la lettura del cast: ancora Jennifer Lawrence e Bradley Cooper? E De Niro fa di nuovo lo svampito? Se si aggiunge il fatto, non da poco, che l’ultimo film del regista de Il lato positivo ed American Hustle risulta effettivamente un po’ inferiore ai precedenti, di quelli che si suol chiamare “interlocutori”, si può facilmente arguire perché Joy sia stato accolto blandamente, escluso dal circuito dei principali riconoscimenti internazionali e talora perfino bollato come filmetto – se non addirittura, per i più catastrofisti, come segnale dell’inesorabile declino di un regista agli esordi promettente.
Ora, se è vero che la vicenda dell’inventrice del mocho è ricostruita dal regista non senza macchia (la tendenza a funzionare da paraboletta femminista, il dramma tendenzialmente gigione, il rimpicciolimento dei comprimari al cospetto di Jennifer Lawrence), ciò non significa che un prodotto in tono minore sia, tout court, un prodotto minore. Basta fingersi qualche prospettiva alternativa per rivalutare un film la cui leggerezza è stata sbrigativamente liquidata come assenza di peso. [MORE]
1. NON DRAMMATIZZIAMO, È UNA COMMEDIA. Tra le commedie più apprezzate della scorsa tornata cinematografica, non a caso candidate insieme Joy ai Golden Globe, apparivano Spy con Melissa McCarthy e Un disastro di ragazza con Amy Schumer. Si tratta di film così frizzanti che non si osa storcere il naso sulle stilizzazioni: giustamente, divertono e basta – che si vuol di più? Eppure non esiste solo quel tipo di commedia, a cui una risata in più guadagna i galloni dell’intoccabilità. Il fatto che Joy sia un biopic con risvolti drammatici, come per una sorta di drogato effetto dei generi, ne alza l’asticella delle attese ed innesca la caccia al difetto. Ridimensionata l’allerta critica, come la scelta tipologica del film richiede, si gode di una bella storia raccontata gradevolmente.
2. LÈGGERE LA LEGGEREZZA. Quando la neve cade su Joy (non è uno spoiler: è l’immagine del poster), qualche spettatore resta di ghiaccio, storcendo il naso di fronte alla tiepida, stucchevole favoletta. Bisogna però scrollarsi i fiocchi di dosso e non farsi tentare dal concludere che sia un film pago dell’effetto cartolina. Il prologo surreale, in cui il mondo delle soap introduce alla finzione nella finzione, ed il dietro le quinte delle televendite, con i set rotanti che sembrano giostre ipnotiche, sono parentesi di divertito cinismo, uno sguardo deformante sulla società dei consumi e del commercio spettacolarizzato. Il mercato è la nuova frontiera, attori e imprenditori sono farabutti ed eroi, i brevetti la terra promessa per cui guerreggiare: il piombo dei proiettili serve solo per sfogarsi coi barattoli in giardino.
3. JENNY CONTRO JENNY. Non si tratta di un film corale malriuscito: non si tratta di un film corale, stop. Al criticone può apparire sprecato l’impiego di Robert De Niro, Bradley Cooper o Isabella Rossellini, o comunque certa stilizzazione di situazioni e dialoghi, ma, di là del fatto che gli “sprechi” sono affare dei produttori, il decentramento dei personaggi rispetto alla protagonista possiede la propria coerenza narrativa – opinabile, questo sì: Joy contro il mondo, Joy isolata sul rumore di fondo, Joy contro sé stessa per non smarrire la propria determinazione ed il valore dei propri obiettivi. Meno male, anzi, che la Lawrence si sia dimostrata all’altezza di un assolo nella confusione.
Antonio Maiorino