"Pietà" di Kim Ki-duk, alla scoperta delle radici del male
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Kim ki duk ritorna al cinema e si aggiudica il Leone d’oro al Festival di Venezia con un film dal colore torbido e cupo: “il nero del mondo” che è solito rappresentare, ma questa volta, molto più che in passato, ha scelto “uno sfondo bianco per farlo risaltare”.
La storia è quella di un ragazzo cresciuto senza madre, Kang-do, che per vivere fa l’aguzzino, mutilando senza pietà i clienti degli strozzini quando non riescono a pagare. Le sole cose che albergano nella sua mente sono la violenza e il denaro. Un giorno incontra una donna che lo segue e dichiara di essere sua madre.
Non è certo la prima volta che Kim Ki-duk crea un personaggio cattivo, incapace di provare amore e pietà, se non in forme contorte e perverse, segnato inevitabilmente da una vita consumata nella violenza.
La caratterizzazione del personaggio è molto incisiva visivamente, come una “visione” appunto, che ingloba tutte le caratteristiche del “bad guy”, facendole diventare oggetti significanti attorno a lui; ogni elemento partecipa alla costruzione drammatica, messa al servizio della maschera del male e del dolore, che il personaggio rappresenta. Gli spazi angusti e grigi in cui vive esprimono in maniera direttamente proporzionale l’equivalente della sua anima.
Ma i precedenti “bad guy” di Kim Ki-duk erano in un certo modo umanizzati, ugualmente condannati ed assolti. Il male non veniva indagato e rimaneva senza ragione, senza rimedio, non perdonato e non punito.
Era un male cieco e quasi fatalistico. Da accettare o sublimare.
In questo film il male si mostra nelle sue radici più profonde, la sua causa ha origine nella mancanza d’amore, l’amore primitivo, quello materno. Questo legame nella vita di Kang-do è stato brutalmente spezzato, sua madre lo ha abbandonato.
Su una parete della casa in cui vive c’è un bersaglio, al centro del quale è posta l’immagine di una donna, contro questa immagine Kang-do lancia ripetutamente il coltello. Ma il bersaglio è solo apparentemente “una” donna; la donna che Kang-do colpisce rappresenta l’impossibilità di instaurare un legame affettivo con ogni altro da sé, a causa dell’assenza del primo amore necessario, quello materno. E’ lei stessa, Cho Min-soo, la donna che afferma di essere sua madre, a sostituire l’immagine sul bersaglio con la propria, prendendosi tutta la responsabilità delle azioni mostruose commesse da Kang-do (“E’ colpa mia, è cresciuto senza amore”).
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Il male ha dunque una ragione, un’origine. Ma svelare la causa del male non equivale ad assolverlo, a giustificarlo, Kim Ki-duk umanizza per poco il suo personaggio e lo mette in modo repentino di fronte alla colpa per le azioni malvagie che ha commesso. Il male ha una causa, ma non può essere senza colpa.
La presenza della donna opera una radicale trasformazione nella mente sadica del ragazzo, i gesti che egli era solito compiere non riescono più a giungere nel suo corpo come istinti, Kang-do non riesce più a punire, a condannare, non riesce più a non avere pietà.
Ma questo non basta, la storia non introduce i presupposti per un percorso di assoluzione, l’unico percorso possibile è l’espiazione della colpa, che non può non condurre ad un estremo epilogo. Questo film però è pervaso da un grande respiro, non è un’opera cupa e buia che rimane chiusa ed avvolta su se stessa, c’è un’apertura, una possibilità di salvezza, che implicitamente è contenuta nel riconoscimento della fonte del male, nell’aver trovato l’ultimo anello della sua catena, nel tentativo, anche se impietoso, di scioglierlo.
La storia conduce al finale attraverso una prolungata e agonizzante amarezza, non esiste una vera condanna, non può esserci una vera assoluzione; però, quell’amarezza apre un varco che è quasi una promessa di speranza, la speranza che il male, una volta compreso, espiato, vinto, non possa e non debba più accadere, ripetersi.
Forse quest’opera di Kim Ki-duk, essendo un prodotto della maturità artistica e intellettuale dell’autore, può essere interpretata come un monito, un avvertimento, e un insegnamento di quanto gli eventi, correndo lungo la catena del male, possano andare contro la stessa umanità e, da quel punto, non possano più percorrere il cammino inverso, verso la pienezza della vita. Ci sono valori fondamentali che, una volta sottratti, distrutti, segnano in maniera indelebile il destino interiore di un essere umano.
(in foto: una scena del film)
Gisella Rotiroti