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WASHINGTON, 6 NOVEMBRE 2011 - Se ne era parlato già in aprile, quando alcuni media iniziarono a raccontare i dettagli dell'operazione “Fast and furious”, con la quale gli Stati Uniti hanno introdotto nel territorio messicano alcune migliaia di armi – anche ventimila a carico – per i militari che sorvegliano il confine tra i due paesi ma che sono state poi ritrovate nelle mani dei cartelli. Proprio da uno di quei carichi arriva l'arma che uccise, nel dicembre 2010, l'agente della polizia di frontiera Brian Terry. Da un articolo pubblicato l'1 novembre dal quotidiano Milenio si scopre che una cosa simile, seppur con quantitativi ben diversi – il Los Angeles Times che per primo ha dato la notizia parla di 500 armi di grosso calibro – sia avvenuta anche durante l'operazione “Receptor Abierto”, tra il 2006 ed il 2007.[MORE]
Da Anonymous ai Los Zetas. La questione dei cartelli, dunque, sta assumendo sempre più carattere internazionale, e non solo per gli accordi bilaterali con la 'ndrangheta sul traffico della droga. In questi giorni, infatti, sono scesi in campo anche quelli che qualcuno definisce i “nuovi paladini del mondo libero”, cioè il gruppo di hacker degli Anonymous che, con l'operazione denominata “#OpCartel” avevano minacciato di pubblicare entro il 5 novembre i nomi di politici, poliziotti e giornalisti appartenenti o collusi con i narcos. Il motivo di questa minaccia, però, non sono i tanti giornalisti che in Messico lavorano quotidianamente rischiando la vita, ma il fatto che nelle scorse settimane uno degli appartenenti al gruppo messicano degli Anonymous sarebbe stato sequestrato proprio dal cartello dei Los Zetas. La minaccia è poi rientrata sia perché il sequestrato è stato liberato, sia perché i narcos avevano a loro volta minacciato di uccidere degli innocenti.
Per quanto ufficialmente chiusa, la questione “Anonymous vs Zetas” lascia però aperte almeno tre domande. La prima, ovviamente, è capire se dietro al video di minaccia verso il cartello ci sia effettivamente il gruppo di hacker o se questa non sia da iscriversi nella lotta interna tra i cartelli. Legata a questa c'è poi la seconda domanda, e cioè capire se gli Anonymous, qualora non fossero stati attaccati direttamente con il sequestro, sarebbero intervenuti.
Last but not least, poi, c'è da chiedersi se in un paese come il Messico – o l'Italia – ci sia davvero bisogno di personaggi senza nome e senza volto per sapere chi sono i collusi con la criminalità.
Narcopolitica. Chi non ha certo bisogno di una maschera per denunciare le collusioni tra cartelli e classe politica è Manuel Espino Barrientos,ex dirigente nazionale del PAN (Partido Acción Nacional) e promotore del movimento “Volver a Empezar” (“Ricominciare”): il Messico è a un passo dalla “narcopolitica”, perché i cartelli non si limitano più a comprare i politici, ma cercano di occupare posizioni di privilegio con loro uomini, e in questo – dice Barrientos al quotidiano El Universal – nessun partito può dirsi al sicuro. Barrientos sottolinea anche come la politica del presidente Calderón sia completamente fallimentare, perché «non possiamo combattere il narcotraffico con le armi ma con programmi sociali, di occupazione, con una nuova cultura per la società».
Pañuelos blancos de Mexico. Lo scorso 1 aprile, a Cuernavaca (capitale del Comune omonimo e dello stato di Morelos, nel sud del paese), un gruppo di giovani invitava alla denuncia i familiari delle vittime della violenza. Nel frattempo si stava organizzando la protesta per l'assassinio di sette persone, tra cui Juan Francisco Sicilia, figlio del poeta Javier (nella foto), diventato il leader del Movimiento por la Paz con Justicia y Dignidad (Movimento per la pace con giustizia e dignità). Sei mesi dopo il quaderno usato per raccogliere le denunce comprende 512 casi di esecuzioni, sequestri e sparizioni in tutto il paese, ma la Commissione di documentazione prevede che i casi continueranno ad aumentare perché ogni giorno c'è almeno una nuova denuncia. Negli ultimi sette mesi, come scrive José Gil Olmos sul settimanale Proceso (“Donde se nombra a los ausentes”, Proceso, 30 ottobre 2011 reperibile in versione integrale su Diario AZ) sono però quasi quattromila i morti (incalcolabile il numero degli scomparsi) della guerra tra il presidente Calderón, la criminalità organizzata dei cartelli e delle forze dell'ordine a questi colluse.
Jethro Ramsés Sánchez Santana è scomparso il primo maggio. L'ultima volta che è stato visto era detenuto dai soldati della XXIV Zona Militare. Due mesi dopo due militari, accusati di far parte del Cártel del Pacífico Sur, hanno confessato di aver torturato e assassinato il giovane. Pietro Ameglio, tra i primi volontari a firmare il registro delle sparizioni, sostiene che non esiste ancora uno spazio nazionale che porti all'attenzione dell'opinione pubblica le migliaia di morti e scomparsi che le autorità considerano “danni collaterali”. Molte però sono le organizzazioni – Unidos por Nuestros Desaparecidos a Tijuana o il Frente Unido por los Desaparecidos de Coahuila - che negli anni, in particolare a partire dal 2007, hanno iniziato a lavorare per tenere viva la memoria.
Quella memoria che, in casi simili, non può che tornare all'Argentina degli anni '70, quando nel giro di qualche anno il regime militare di Jorge Rafael Videla fece sparire più di trentamila persone. Nell'Argentina degli anni '70, però, pian piano che aumentava il numero dei desaparecidos le loro madri iniziavano ad unirsi per richiedere la loro riapparizione in vita, o quanto meno la restituzione dei loro corpi. Oggi quelle donne sono conosciute come “las Madres de Plaza de Mayo”, sono conosciute nel mondo anche per il loro simbolo, un pannolino bianco (chiamati "pañuelo blanco") che rappresenta i figli scomparsi. Che il Movimiento por la Paz di Javier Sicilia ne sia la versione messicana sembrano esserci sempre meno dubbi.
Andrea Intonti