"Marina Abramovic - The Artist is Present", lo spettatore anche
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"Marina Abramovic - The Artist is Present", lo spettatore anche

martedì 31 luglio, 2012

NAPOLI, 31 LUGLIO 2012 - Il curatore della retrospettiva di Marina Abramovic al MOMA, Klaus Biesenbach, spiega alle telecamere: “She's never not performing”. Verrebbe da dire che l’ultima (non)performance della nota artista di origini serbe trovi una declinazione originale nel documentario di Matthew Akers: Marina Abramovic – The Artist is Present. In cui, in effetti, il gioco di specchi tra arte e realtà, performance e vita, recitazione e verità, si complica, sia pure nell’ordine apparente di un art film di rigorosa calibratura, in ragione di un paradosso di fondo: la forma “film” restituisce all’artista lo status di icona che proprio la performance in oggetto, al MOMA, cercava di ridefinire fuori dalla fissità dell’immagine, nella pulsante empatia fisica e mentale del gesto artistico sconfinante nella vita.

Un fallimento, allora? Tutt’altro. In prima istanza per l’abilità assoluta del regista nell’assecondare, con opportune modulazioni, la ricostruzione del percorso che ha condotto l’artista alla retrospettiva di New York (14 marzo – 31 maggio 2010), in cui, mentre sue vecchie performance erano reinterpretate da altre persone – da altri corpi –, la Abramovic si metteva a disposizione del pubblico, in una grande sala vuota. Immobile, per sei giorni alla settimana, dall’apertura alla chiusura: con la possibilità per gli spettatori di sedersi di fronte a lei. Così, il film diventa ideale retrospettiva cinematografica di una retrospettiva artistica, confinando alla prima parte la preparazione alla mostra, concedendo interventi sparuti ai critici e puntando, piuttosto, sull’immediatezza carismatica della performer alle prese con quello che lei stessa definisce il versante “amministrativo” dell’arte: sopralluoghi, riunioni, confronti con curatori e designers, la routine delle interviste.

Rifuggendo il rischio del “lemma visivo”, Akers concede un rilievo spiccato alla vicenda, a metà tra biografia ed arte, del rapporto di Marina Abramovic con il performer tedesco Ulay (Uwe Laysiepen), suo partner di vita e di lavoro. Al primo significativo crocevia “narrativo” – poiché, appunto, il documentario riesce a recuperare un calore tutto diegetico – è proprio l’amante di una volta a sedersi, nella sala del museo newyorchese, di fronte alla compagnia di vita e d’arte, preludendo, nel pausato, interminabile sguardo tra le due anime, al tono della seconda parte, a mo’ di ouverture con strategico delay. La simbiosi del prodotto filmico con la performance del MOMA si compie, di fatto, nella discrezione con cui il regista improvvisa immersioni profonde nel muto dialogo dell’artista col pubblico, a sguardi più distaccati sulla varia umanità dei volti degli astanti, tra curiosità, commozione e perplessità. Stacchi di vellutata chirurgia lasciano solo di rado il campo a dissolvenze flautate, come a trapassare di soppiatto dalla regolarità ritmica del documentario alla fluidità percettiva dello sguardo della Abramovic, appena sfiorato dalla vicinanza di pochi close up strettissimi ed intensi. Il corpo, mutato in oggetto filmico, riproduce una performance nella performance, minimamente riposta nel valore espressivo proprio del mezzo cinematografico: lo sguardo. [MORE]

Ne vien fuori una sorta di osmosi tra la performance artistica e l’involontaria recitazione cinematografica, con cui anche allo spettatore del film, privato della presenza fisica dell’artista, è concessa l’esperienza viscerale di una profonda comunione empatica per via visiva. Eppure, a un tempo, è l’esatto esaudirsi, attraverso il rituale sovrapposto della macchina da presa, di una rivisitazione puntuale dell’opera dell’Abramovic nel proprio aspetto più saliente, più sanguinante: quello del rapporto col pubblico che, come è adombrato con cautela, si rinnova con vivo turgore emozionale anche per una certa “frigidità” affettiva nella vita familiare passata della giovane serba (la madre non la baciava mai per non viziarla). Il risultato è che l’artista è presente – ancora; ma, soprattutto, anche chi guarda.

(in foto: il momento toccante del contatto tra Marina ed Ulay)


Antonio Maiorino


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