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MILANO, 27 NOVEMBRE 2012 – Il terremoto che in queste ultime ore sta scuotendo l’Ilva di Taranto, a causa degli arresti (in carcere sono finiti: Fabio Riva, amministratore delegato dell'Ilva e vicepresidente di Riva Group, Luigi Capogrosso, ex direttore dello stabilimento, e l'ex consulente Girolamo Archinà. Ai domiciliari: Lorenzo Liberti, Emilio Riva, presidente della capogruppo della Riva Fire, l'ingegner Carmelo Dellisanti della Promed Engineering e Conserva ), i sequestri e l'annunci di chiusura dello stabilimento, da parte dei vertici, si sta trasformando in un dramma sociale.
Infatti, come troppo spesso accade, a pagare sararanno gl'innocenti: gli abitanti di Taranto e i lavoratori. Per quanto concerne i primi, per le conseguenze sul loro stato di salute e sulla qualità della vita nel territorio, a causa dell’azione scellerata e senza scrupoli della dirigenza dell'Ilva di Taranto che, secondo i capi d’accusa, avrebbe emesso “nell'aria e negli ambienti vicini allo stabilimento sostanze nocive quali benzo(a)pirene, diossine, metalli e altre polveri nocive, causando gravissimo pericolo per la salute pubblica e dei lavoratori dello stabilimento, contaminazione di terreni ed acque”.
E se ha pienamente ragione il procuratore di Taranto, Franco Sebastio, che collegandosi all'articolo 41 della Costituzione, ha affermato che, ''Il diritto alla vita e alla salute non accettano compromessi di sorta, tutti devono cedere il passo”, più difficile è condividere il suo pensiero quando aggiunge che ad adeguarsi alle decisioni deve essere “anche il diritto al lavoro”. Proprio i lavoratori, doppiamente vittime di questa situazione: lesi nel loro diritto alla salute e a lavoro (ribadiamo, entrambi sanciti dalla nostra Costituzione). [MORE]
Così, con la chiusura dell'impianto a freddo dell'Ilva di Taranto, a rischio 5.000 lavoratori, a cui si aggiungono, a causa dell’effetto domino, i circa 2.500 lavoratori degli stabilimenti Ilva di Genova, Novi Ligure e Marghera per un totale di 7.500 lavoratori, ovverosia circa il 20% degli occupati nel settore dell'acciaio in Italia. Se a questi si aggiungono i lavoratori dell’indotto, secondo le stime di Confindustria, il numero lievita portandosi a 25.000 lavoratori. E se questo scenario preoccupante non bastasse, occorre tener presente l'impatto i costi connessi alla chiusura dell’impianto, pari a circa un miliardo di euro che si ripercuoteranno sulle casse statali, quindi sulla collettività, tra cassa integrazione imposte e oneri sociali.
A ciò si dovranno aggiungere le conseguenze sulla nostra bilancia commerciale. Infatti, come evidenzia Federacciai, in Italia si sono prodotti nel 2011 28.735.000 tonnellate, secondi solo alla Germania (44 milioni di tonnellate). Inoltre, come sottolinea Confindustria, occorrerà tener conto degli extra costi anche nell'approvvigionamento che potrebbero oscillare tra i 4,5 e i 7 miliari di euro l'anno.
Alla luce di tutto ciò, solidarietá ai lavoratori e ai cittadini.
(Fonte: Ansa)
Rosy Merola