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RAGUSA, 21 MARZO 2012 - «Questa non è una cronaca. Questo è un omicidio collettivo».
Sono gli anni Settanta. Gli anni dei Salazar in Portogallo, dei colonnelli in Grecia e del tentativo di spostare a destra l'asse politico europeo.
In Italia, mentre la gente canta “I giorni dell'arcobaleno” di Nicola Di Bari, che aveva trionfato quell'anno al festival della canzone italiana, vengono uccisi l'imprenditore Giangiacomo Feltrinelli (per il quale mai è stato chiarito se si tratti di omicidio o di semplice errore nella progettazione delle bombe), il commissario Luigi Calabresi e lo studente anarchico Franco Serantini. Tre anni prima, il 12 dicembre 1969, alla Banca Nazionale dell'Agricoltura di Piazza Fontana, a Milano, una bomba aveva dato il via alla strategia della tensione.
Feltrinelli, Calabresi, Serantini, Piazza Fontana. Era di questo che parlavano le prime pagine dei giornali dell'epoca. Era questo il centro della scena.
E la periferia? Cosa succedeva nella periferia (geografica e mediatica)?[MORE]
In periferia succedeva, ma lo si scoprirà solo qualche tempo dopo, che Junio Valerio Borghese, il “Principe Nero” della X Mas chiedesse – come raccontato da alcuni collaboratori di giustizia – la collaborazione di Cosa Nostra per il suo tentativo di destabilizzare l'ordine democratico attraverso un colpo di Stato. Ma anche l'eversione nera, Cosa Nostra e la strategia della tensione erano notizie da prima pagina.
Sigarette ed opere d'arte. Queste, invece, erano notizie “periferiche”, di quelle a cui oggi si dedicherebbero solo poche righe, e forse nemmeno tanto approfondite.
È di questo, del contrabbando di sigarette e di opere d'arte, che si parla in quegli anni a Ragusa, Sicilia Orientale. Anche lì, come a Milano, ci sono le bombe fasciste, che magari scelgono le sedi dei sindacati “rossi” piuttosto che le banche, ma sempre di bombe si parla.
«Aprite! Aprite! Ho appena ucciso un uomo. Sono Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale di Ragusa».
Quando si costituisce, ancora sporco di sangue e con la pistola in mano, Roberto Campria è ancora in stato confusionale. Ma d'altronde c'è chi dice che quello sia il suo normale stato mentale. Era la notte tra il 27 ed il 28 ottobre 1972.
Ha appena ucciso un uomo, Campria. Si chiama Giovanni Spampinato, 26 anni. In quegli anni fa il giornalista per il quotidiano “L'Ora” di Palermo e per “L'Unità”, ed è anche molto bravo, dato che molti dei suoi articoli vengono pubblicati in prima pagina.
Eppure viene ucciso per una notizia che è l'unico a dare. In realtà la dà anche l'Ansa, che però la toglie quasi subito, lasciando a “L'Ora” e “L'Unità” l'esclusiva.
«Sotto torchio il figlio di un magistrato». È questa la notizia che l'Ansa toglie e che costa la vita al giovane cronista.
Spampinato, Campria, Tumino. Nomi che nella Milano di Feltrinelli e di Piazza Fontana non dicono nulla. Fino a cinque anni fa dicevano poco anche a Ragusa, dove si sono svolti i fatti. Finché il giornalista Roberto Rossi e Danilo Schininà – attore che insieme a Giovanni Arezzo ha portato in scena ieri “Il caso Spampinato” (di cui vi parla la nostra Elisa Mirabile) – non hanno sentito il bisogno di prendere quei fatti in mano e raccontarli.
Fino a quel momento, infatti, quando si chiedeva a qualcuno se fosse a conoscenza di questa storia, al massimo ti raccontavano che l'omicidio fosse stato un fatto privato, allorquando uno dei figli della “Ragusa bene” si era sentito perseguitato dal giovane ed inesperto giornalista ed aveva deciso di farlo fuori. «Lui mi aveva ucciso moralmente, io l'ho ucciso fisicamente», dirà in seguito. Eppure, quando i due si incontrarono qualche mese prima, lo stesso Campria assicurò a Spampinato di non aver nessun risentimento nei suoi confronti. Forse le strade dei due non si sarebbero neanche incontrate se nel febbraio del 1972 non ci fosse stato quell'altro omicidio, quello dell'ingegner Angelo Tumino, ex costruttore edile con un passato da consigliere comunale del Movimento Sociale Italiano ragusano, che all'epoca dell'omicidio si occupava di antiquariato. Come appassionato e come trafficante, molto vicino a quel gruppo archeologico diretto dall'ordinovista Efisio Pitone che sarebbe coinvolto nel contrabbando di sigarette – spesso pagate proprio con le opere d'arte rubate – che in molti casi nascondeva anche un più che florido traffico di droga e di armi con la Grecia. Traffici troppo grossi per essere lasciati in mano a dei “sigarettari” che, senza non troppa casualità, in molti casi erano tutti di estrema destra. Per gestire traffici di questo tipo, allora come oggi, c'è bisogno del beneplacito delle famiglie di Cosa Nostra.
È in questo scenario che matura l'omicidio Tumino, ucciso nelle campagne ragusane con un colpo di pistola alla fronte dopo essere stato tramortito con una martellata alla tempia destra. Per questo omicidio gli investigatori interrogano molti degli amici della vittima, tra i quali proprio Campria, tra i primi ad essere accusati – il mandato di cattura nei suoi confronti verrà ritirato dall'allora pubblico ministero Agostino Fera «per rispetto al padre» - e che dell'amicizia con la vittima faceva segno di vanto. Saranno tanti i testimoni ascoltati, tra i quali Elisa Ilea, vicina di casa di Tumino considerata la testimone chiave.
Passano i mesi, e la magistratura di quell'omicidio non ci capisce niente. Ma l'opinione pubblica vuole sapere. Il fiuto del giornalista di razza porta Giovanni Spampinato su una pista, quella secondo la quale a Ragusa i fascisti stiano preparando qualcosa di grosso, con gli esplosivi, per poi dare la colpa agli anarchici (esattamente come a Milano tre anni prima), ma Tumino voleva tirarsene fuori. Si giustificherebbe così anche la presenza a Ragusa di Stefano delle Chiaie, fondatore di Ordine Nuovo insieme a Pino Rauti e tra i principali protagonisti della strategia della tensione in Italia che in quei giorni, in città, si accompagnava insieme con Vittorio Quintavalle, uno degli uomini di Junio Valerio Borghese tra gli interrogati per l'omicidio Tumino.
«Quella di mio fratello», ha detto ieri Alberto Spampinato a margine dello spettacolo teatrale, «è stata una tragedia collettiva, la cronaca di una morte annunciata».
Una morte, come ha sottolineato l'ex quirinalista dell'Ansa da poco in pensione, che ha sì in Campria l'esecutore materiale, ma che deve la sua realizzazione ad almeno quattro silenzi, senza i quali – forse – quell'omicidio non sarebbe mai avvenuto.
C'è stato quello che si fa fatica a chiamare “giornalismo” - quello, ad esempio, che tolse la notizia dell'interrogatorio di Campria dai lanci Ansa – che spesso dimentica di fare il suo mestiere. C'è stata la magistratura, che non ha avocato per legittima suspicione le indagini sul figlio di quel presidente del Tribunale capace di andare al di sopra della legge («grazie a quali agganci?» si è chiesto Alberto Spampinato) per evitarlo, e poi ci sono state la politica e l'opinione pubblica, che in casi come quello di Spampinato hanno una soglia di attenzione inversamente proporzionale al pericolo che rischia chi continua a fare i nomi ed i cognomi.
Quei nomi e cognomi che hanno deciso di armare la mano di Campria – per entrambi gli omicidi? - e che, ad oggi, rimangono ancora nascosti nell'ombra.
(foto: http://www.italianotizie.it/)
Andrea Intonti