FIAT: Croce e delizia nella storia socio-economica italiana (2)
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MILANO, 17 SETTEMBRE 2012 - Come accennato nella prima parte dell'articolo (FIAT: Croce e delizia nella storia socio-economica italiana (1) ), l'"Avvocato", Giovanni Agnelli, assunse le redini dell'azienda nel 1966. Tuttavia, per il giovane Agnelli, la conduzione non sarà per nulla semplice, dovendosi scontrare con uno dei momenti più critici del capitalismo italiano, caratterizzato dalla contestazione studentesca prima e delle lotte operaie poi: Sono gli anni dei cosiddetti “autunni caldi”, caratterizzati da una serie di scioperi e di proteste che, in concomitanza con la crisi economica che imperversava in quegli anni, misero in seria difficoltà la Fiat.
Alla fine degli anni ’70, per arginare i danni, la FIAT cominciò a prospettare il possibile licenziamento di quattordicimila operai. Questo portò ad una dura fase di scontro sindacale (basti pensare al famoso sciopero dei 35 giorni). Le suddette lotte dell’”autunno caldo” portarono, tuttavia, a delle conquiste importanti: il rinnovo del contratto dei metalmeccanici (nel dicembre 1969), lo Statuto dei lavoratori (1970) ed il riconoscimento dei Consigli di fabbrica (1971).
Intanto, in casa FIAT, faceva il suo ingresso ai vertici del Lingotto, nel gennaio del 1970, Umberto Agnelli che andò ad affiancare, come amministratore delegato della FIAT, l’ing. Bono (destinato a dimettersi dalla carica l’anno successivo). Sempre nel 1970, fu inaugurato lo stabilimento di Termini Imerese e si decide di avviare la costruzione di nuovi stabilimenti al sud (Cassino, Termoli, Bari, Sulmona, Vasto, Lecce, Nardò e Brindisi. Ad incidere negativamente su tutto il settore automobilistico, anche la crisi petrolifera del 1973, che colpì in modo significativo la FIAT. Infatti, per la prima volta da anni, il bilancio del 1973 si chiuse in perdita e, il 2 ottobre 1974, la FIAT mise in cassa integrazione 65.000 operai. Parallelamente, al fine di ristrutturare il debito (quelli a breve ammontavano a 1.800 miliardi), fu assunto Cesare Romiti. Intanto, la situazione del mercato dell’auto, continuava ad essere critica. Nel 1975, le vendite subirono una flessione del 25%, e la FIAT precipitò al 10° posto tra i produttori automobilistici mondiali. Il trend negativo del settore auto proseguì per tutti gli anni ’70, per poi assumere dimensioni mondiali nel 1980. [MORE]
In quell’anno, l’indebitamento della FIAT toccò quota 6.800 miliardi di Lire, pari circa a fatto e oltre al doppio del patrimonio netto. Nel mese luglio, Umberto Agnelli rassegnò le proprie dimissioni da amministratore delegato. Al suo posto si insediò Romiti che, l’11 settembre, annunciò 14.469 licenziamenti (trasformato poi in cassa integrazione a zero ore per 23.000 lavoratori per due anni). Iniziarono, così, i giorni più duri della lotta operaia, il cui centro nevralgico fu caratterizzato dalla Fiat di Mirafiori, da cui scaturì lo sciopero di 35 giorni con blocco degli stabilimenti. Tuttavia, questa agitazione si concluse con una bruciante sconfitta a causa, anche, della marcia dei colletti bianchi della FIAT, il 14 ottobre 1980, data che segnò un punto di rottura nella storia delle lotte sindacali in Italia.
Infatti, per la prima volta nella storia delle lotte dei lavoratori, ad alzare la voce fu la compagine più silenziosa dell’industria: gl’impiegati. Ciò, condizionò per sempre i rapporti tra lavoratori, sindacati e azienda. Gl’impiegati in 40.000, esasperati da cinque mesi di proteste e scioperi, decisero di scendere in piazza contro gli operai, impedendo il raggiungimento di un accordo tra FIAT e sindacati che prevedeva la cassa integrazione a rotazione, voluta da governo e sindacati, a favore degli operai. L’azione dei colletti bianchi fu un colpo di scena che nessuno si aspettava. Una débâcle del sindacato e della lotta operaia. Per la Fiat, questa fu una svolta decisiva. Il binomio Agnelli-Cesare Romiti, riuscì a rilanciare la Fiat in campo internazionale, facendola diventare una holding con interessi diversificati, che andavano dal settore dell’auto (in cui la Fiat aveva assorbito anche l’Alfa Romeo e la Ferrari), all’editoria, alle assicurazioni.
Quindi, già nel 1983, la Casa torinese cominciò ad uscire dalla crisi, grazie al successo della “Uno” (400 mila vetture vendute). Nel 1984 ritornò a scalare la vetta delle vendite, ritornando ad essere prima per vendite in Europa. In questo modo, nel 1985, l’utile consolidato salì a 1.682 miliardi di lire, e l’anno successivo giunse a 30.000 miliardi, con un ritorno sul capitale proprio addirittura del 45,5%. Nell’87, il gruppo FIAT, con circa 750 società controllate, totalizzava il 4% del PIL nazionale. Tuttavia, il trend positivo della FIAT era destinato ad avere un’inversione di tendenza negli anni ’90. Il Lingotto, cominciò a perdere terreno, sia sul mercato nazionale che su quello europeo. Non agevolò di certo la situazione, la libera circolazione delle merci posta in essere dalla Comunità Europea nel 1993. Il venir meno delle politiche protezionistiche, che fino a quel momento avevano caratterizzato la vita della FIAT, non tardò a farsi sentire: la quota sul mercato europeo si ridusse al 12%, registrando perdite per oltre 1.800 miliardi. Ciò, fece scaturire il bisogno di una importante ricapitalizzazione della FIAT, pari a 4.285 miliardi, guidata da Mediobanca, che consentì l’ingresso nell’azionariato FIAT nuovi azionisti, tra cui la stessa Mediobanca, Deutsche Bank, le Generali e Alcatel.
Contemporaneamente, Romiti cercò di far fronte al difficile momento, continuando con la “diversificazione” del gruppo, facendo appello allo “stato di crisi”; licenziando persone che erano in azienda da molto tempo, per procedere all’assunzione di giovani in contratto di formazione-lavoro, così da poterli pagare di meno e aprendo nuovi stabilimenti nel sud (Melfi e Pratola Serra), al fine di poter usufruire dei previsti contributi pubblici (basti pensare ai 1.350 miliardi di lire)[1]. Nonostante ciò, le vendite della FIAT dopo una breve ripresa, complice l’effetto della svalutazione della Lira (1992), tornarono a crollare, al punto tale che fu necessario l’intervento del Governo, attraverso la “rottamazione” del 1996, decisa da Prodi e Bersani. E, mentre l’esecutivo approvava, per l’ennesima volta, gl’incentivi a favore del mercato nazionale dell’auto, la FIAT procedeva alla dislocazione della produzioni all’estero (con la conseguenza che, nel 2001, il 66% del fatturato era realizzato fuori dai confini nazionali contro il 44% del 1990; più del 50% della forza-lavoro operava fuori d’Italia, rispetto al 22% del 1990, mentre all’estero era fabbricato il 47% delle auto venivano prodotte all’estero, rispetto al 17% del 1990)[2].
Inoltre, a fine anni ’90, nel 1998, un altro cambio ai vertici della FIAT. Paolo Fresco prende il posto di Romiti, diventando presidente della FIAT a Romiti (che a sua volta ne aveva assunto la carica nel 1996, al posto di Gianni Agnelli, divenuto presidente onorario), e, a causa della situazione delicata in cui si trovava nel 2000 il Lingotto, stipula un accordo con la General Motors, il quale prevedeva la cessione del 20% di FIAT Auto, e l’opzione a comprare il restante 80% nel 2004. Nonostante ciò, la situazione del Lingotto, con l’avvento del nuovo secolo, non era destinata a migliorare. Infatti, se il 2001 si era concluso in negativo, peggio andò nel 2002: la posizione debitoria del gruppo FIAT era arrivata a toccare i 35,5 miliardi di euro. Tra i creditori più esposti, ovviamente, vi erano le banche italiane, per un importo pari a 8,4 miliardi di euro[3]. Urge correre ai ripari, mediante una operazione di ristrutturazione del debito della Casa torinese ad opera delle banche (Sanpaolo, Intesa, Bancaroma, Unicredito), le quali procedono allungando a 3 anni i termini di scadenza di 3 miliardi di euro di debiti a breve. Inoltre, le condizioni di allungamento dei tempi prevedeva che, se questi non fossero state rispettati, le banche avrebbero potuto trasformare i loro crediti in azioni della società. Questo rese necessario la definizione di un nuovo Piano Industriale, il quale includeva misure drastiche, quali il licenziamento di 3.800 persone.
Tuttavia, la situazione precipitò nel giro di poco tempo e, il 9 ottobre, il Lingotto si rivolse all’esecutivo, invocando lo “stato di crisi”. I dati parlano chiaro, nonostante tutto, la fase ascendente del Gruppo non tende ad arrestarsi, che continua a perdere quote di mercato e fiducia, al punto tale che, il 23 dicembre 2002, le principali agenzie di rating internazionali procedono tagliando il rating della FIAT, portando i suoi titoli al livello “spazzatura” (junk). Quasi a voler sancire questo declino, il 24 gennaio 2003 Gianni Agnelli, dopo una lunga malattia si spegne. E, sempre nel 2003, la criticità della situazione fa sì che Umberto, fratello di Gianni, assuma la presidenza della FIAT. Tuttavia, la sua scomparsa l’anno dopo, porta alla guida del timone, Luca Cordero di Montezemolo e, contestualmente, l’erede designato dalla famiglia Agnelli, John Elkann, viene nominato vice presidente all’età di 28 anni. Inoltre, si procede anche alla sostituzione del dimissionario Amministratore Delegato, Giuseppe Morchio, il cui posto viene occupato da Sergio Marchionne che, nel giro di soli tre anni, riesce a risanare l’Azienda, portandola a raggiungere il più alto livello di utile nella storia del Lingotto. Così, Marchionne, con il suo stile “pullover blu”, diventa l’uomo simbolo della FIAT post Agnelli.
Il nuovo Amministratore Delegato, per attaccare meglio il mercato dell’auto, procede a suddividere il gruppo: da una parte Fiat Auto, dall’altra tutto il resto. Un’altra mossa importante, nell’ottica della Casa torinese, è la trattativa con General Motors, che porta alle casse della FIAT 2 miliardi di dollari per l’estinzione del diritto di acquisto dei suoi titoli. Inoltre, al fine di ridurre l’esposizione della FIAT nei confronti delle banche, Marchionne propone la conversione dei debiti in azioni, collocandole, poi, presso gli istituti finanziari. Proceduto a risanare il bilancio del Lingotto, occorreva consolidarlo. Così, viene elaborato un piano produttivo che prevedeva il lancio di diversi modelli d’auto: la nuova Cinquecento, la Grande Punto, le nuove linee della Lancia ed Alfa Romeo. Inoltre, per far crescere il gruppo, secondo Marchionne, occorreva guardare all’estero.
E, in quest’ottica, viene inserita l’acquisizione della Chrysler. “Fiat e Chrysler devono vivere e crescere insieme come un’unica famiglia. Devono sentirsi libere e stimolate nel mettere in comunele cose che sanno, con la coscienza che è l’unica via per impararne di nuove. Due culture che si uniscono e che costituiscono la miglior garanzia del nostro successo”, ha detto di recente Marchionne[4]. L’Amministratore delegato, riferendosi al delicato momento che sta attraversando il nostro Paese, sottolinea che, “Delocalizzare le attività industriali, misura di difesa spesso usata per affrontare la guerra sui prezzi, credo sia una strategia molto pericolosa. Chi la segue deve essere consapevole degli effetti che provoca sul territorio di origine in termini di perdita di posti di lavoro, di competenze e stabilità economica”[5]. E aggiunge, “Tutti quanti dovremmo ricordare l’obbligo morale che è collegato al fare impresa, e il dovere che abbiamo di contribuire al disegno di crescita dei nostri Paesi. Questo è l’impegno che abbiamo preso con la Fiat, in Italia, e con Chrysler negli Stati Uniti. Un impegno che vuol dire rispettare la storia delle nostre due aziende e delle comunità che le hanno viste nascere e ne hanno accompagnato lo sviluppo”[6].
In merito al mercato, l’Ad della FIAT, evidenzia che, “A volte accade che le grandi conquiste portino ad avere effetti diversi da quelli attesi e così sta succedendo con il nostro welfare state. Un sistema di protezione del lavoro e dei lavoratori pensato per aiutare i più deboli, che per molti anni è stato indicato e preso a esempio, ha perso la sua efficacia. Le regole di oggi non ci proteggono dalla crisi e non hanno la capacità di gestire i cambiamenti a livello mondiale”[7]. Tuttavia, Marchionne non risparmia una stoccatina alle parti sociali, affermando, “Oggi viviamo nell’epoca dei diritti: al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa, a urlare, sfilare e pretendere. Diritti sacrosanti, che vanno tutelati, ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo. Per questo il manager invita a “tornare a un sano senso del dovere, alla consapevolezza che per avere bisogna anche dare”[8]. Così, arriviamo agli eventi di queste ultime ore, che sa tanto di minestra riscaldata.
Infatti, i “corsi e i ricorsi storici” percorsi in questo breve approfondimento, ci inducono a concludere che, senza interventi statali, il mercato dell’auto (sia Nazionale che Estero), non è in grado di sorreggersi da solo. Tuttavia, nonostante l’importanza economica del suddetto settore, bisogna tener presente che gli aiuti, le sovvenzioni non possono e non devono durare in eterno. Urge al più presto avviare un percorso di ristrutturazione, anche se il cammino si prospetta arduo e con sacrifici da compiere.
(Per la prima parte: FIAT: Croce e delizia nella storia socio-economica italiana (1) )
FONTI:
[1] Castronovo, p. 1665.
[2] Dati FIAT, 20/2/2002.
[3] Dati estrapolati da un articolo de “Il Sole 24 Ore”, del 5/6/2002.
[4], [5], [6], [7],[8] Articolo del 31/03/2012, 31/03/2012 – “Bisogna saper cambiare troppe tutele frenano l’Italia” , Teodoro Chiarelli, lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/448484/
Inoltre, sono stati consultati anche: 1) L’automobile italiana dal 1918 al 1943, di Alberto Bellucci – Ed.Laterza, Bari 1984; 2) Agnelli, di Valerio Castronovo – Ed. UTET, Torino 1971; 3) L’industria italiana dall’ottocento a oggi, di Valerio Castronovo – Ed. Mondadori, Milano 1980; 4) Il capitalismo industriale in Italia, di Giorgio Mori – Ed. Editori Riuniti, Roma 1977; 5) L’industria italiana nel mercato mondiale dalla fine dell’Ottocento alla metà del Novecento, di AA.VV.; 6) Fiat Relazioni Esterne e Comunicazioni, Torino 1993.
Rosy Merola