FIAT: Croce e delizia nella storia socio-economica italiana (1)
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MILANO, 16 SETTEMBRE 2012 - Aria di alta tensione è quella che si sta respirando in queste ore tra parti sociali, forze politiche e la Fiat, tanto da rendere necessario l'intevento del governo, facendo pressing sul suo amministratore delegato, Sergio Marchionne, e chiedendo al Lingotto "di fare al più presto chiarezza al mercato e agli italiani" sugli impegni per il Paese. Ripensando alle vicende che fin qui hanno caratterizzato la storia della Fiat, viene spontaneo affermare: Nulla di nuovo all'ombra della Mole! L'ennesima spina nel fianco. Tuttavia, procediamo per gradi, ripercorrendo le "tappe" salienti: "croce e delizia" del Made in Italy.
La forza dell’economia italiana risiede, soprattutto, nelle piccole-medie imprese (PMI) che costituiscono la spina dorsale del nostro Paese. Tuttavia, il principale contributo a supporto della nostra bilancia commerciale viene dai quattro settori principali dell’industria manifatturiera, quelli che gli esperti definiscono le quattro A del Made in Italy: Automazione, Abbigliamento, Arredocase, Alimentari. Di questi macro-settori, quello che più di tutti ha condizionato nel tempo la storia dello sviluppo economico italiano, è il settore dell’Automazione (che incorpora i mezzi di trasporto finiti e le parti di autoveicoli).
Quando si pensa alle auto “Made in Italy” (oltre alla Ferrari), inevitabilmente il pensiero va alla “Fabbrica Italiana Automobili Torino”, in una parola F.I.A.T. Una storia ultra centenaria che trae la sua origine dalla passione per i motori del giovane Giovanni Agnelli (nonno del più famoso Avvocato Giovanni Agnelli). Infatti, l’intraprendente Agnelli, venuto a sapere delle intenzioni del Conte Emanuele Cacherano di Bricherasio di volere dare vita a una azienda per la fabbricazione di automobili, riesce a raggiungerlo e ad illustrargli le sue idee e i progetti da lui realizzati. Così, il 1° luglio del 1899, nel palazzo Bricherasio in Via Lagrange a Torino, si giunse alla stipula dell’accordo per la nuova azienda e il conseguente atto notarile ad opera del notaio Torretta, siglato nella sede del Banco Sconto e Sete di Via Alfieri l’11 Luglio 1899, con il quale si diede il via alla “Fabbrica Italiana di Automobili”, che cambiò subito nome, diventando Fabbrica Italiana Automobili Torino, ovverosia: “F.I.A.T.” Oltre al Cav. Giovanni Agnelli e al Conte Emanuele Cacherano di Bricherasio, presenti alla firma dell’accordo anche il Conte Roberto Biscaretti di Ruffia, Cav. Michele Ceriana, Damevino sig. Luigi, Marchese Alfonso Ferrero di Ventimiglia, Avv. Cesare Goria Gatti, Avv. Carlo Racca, Cav. Ludovico Scarfiotti ed altre ventuno persone. L’azienda venne costituita con un capitale di 800.000 lire, suddiviso in 4.000 azioni di 200 lire ciascuna. Con Scarfiotti presidente e Agnelli amministratore delegato, la Fiat inizia la sua attività: “Siamo appena all’alba di un grandioso movimento di capitali, di masse, di lavoro. Mi sbaglierò, ma l’automobile segnerà l’inizio di un rinnovamento sociale dalle fondamenta”, così sosteneva Giovanni Agnelli (Senior) e non aveva torto. [MORE]
Grazie all’automobile, la città di Torino cominciò a crescere. I dati dell’epoca evidenziano che, nel 1901, con una popolazione di 335.000 unita, gli operai addetti al ramo metalmeccanico erano circa 15.000. Dopo dieci anni, con una popolazione salita a 427.000 abitanti, i metalmeccanici superavano le 30.000 unità, metà dei quali impegnati nel settore automobilistico. Cominciarono a sorgere interi quartieri popolari, tra cui: il rione San Paolo che, dal 1901 al 1921, passò da 4.000 a 32.000 abitanti. Nonostante la presenza di diverse realtà nell’ambito dell’industria meccanica, la FIAT riuscì velocemente a sbaragliare la concorrenza, acquisendo quote di mercato sempre più ampie. I numeri relativi alla produzione parlano chiaro: su 3.080 auto fabbricate tra tutte le case italiane, nel 1904, quelle prodotte dalla FIAT erano appena 268. Dieci anni dopo, la Casa torinese tocca quota 4.644 unità, oltre la metà di tutta la produzione nazionale. La suddetta escalation produttiva trovò il suo fondamento, essenzialmente, in due fattori: l’intraprendenza di Giovanni Agnelli e la decisione di “fare come il Ford”.
Per quanto concerne il primo punto, a seguito di una prima fase di difficile sviluppo, contrassegnato da una serie di ricapitalizzazioni e da modifiche nella composizione del capitale azionario (una delle pagine nere nella storia della FIAT, sfociata in processi clamorosi per l’epoca. Nel giugno 1908, infatti, Giovanni Agnelli e i suoi soci furono rinviati a processo per illecita coalizione, falsificazione dei bilanci e aggiotaggio. Furono poi prosciolti dalle accuse solo quattro anni dopo e in un secondo processo l’anno successivo), la proprietà della casa automobilistica venne assunta quasi integralmente da Giovanni Agnelli (1906).
In merito al secondo fattore, grazie alla razionalizzazione del lavoro e all’applicazione parziale dei metodi tayloristici, la Casa torinese riuscì a fare, nel 1912, il “salto di qualità” attraverso l’introduzione della prima utilitaria Fiat prodotta in serie, la tipo “Zero”. La nuova nata di casa FIAT, venne lanciata sul mercato al prezzo di 8000 lire che, un anno dopo, passò a 6900 lire grazie all’ammortamento dei costi. In questo modo, si cominciarono a fare i primi passi volti alla razionalizzazione del processo di lavoro attraverso l’introduzione, anche se in forma embrionale, dei principi del taylorismo e del fordismo: ovverosia l’integrazione sistematica di quattro elementi: 1) “Time and Motion System” (l’individuazione del modo più efficace per svolgere una certa prestazione lavorativa); 2) “American System” (l’intercambiabilità dei pezzi); 3) “Jig System” (lo studio e la costruzione di apparecchiature ausiliarie necessarie per razionalizzare le lavorazioni meccaniche); 4) “Standardized and Synchronized System” (in sostanza la catena di montaggio). Oltre a ciò, gli industriali consideravano questa innovativa forma di organizzazione del lavoro, altresì, un’opportunità per ridimensionare il potere di intervento della classe operaia nei processi produttivi e la sua forza negoziale[1].
In realtà, già nel 1912, ai lavoratori era stato imposto un nuovo contratto di lavoro nettamente sfavorevole sotto il profilo delle garanzie. Infatti, il suddetto contratto metteva al bando gli “scioperi impulsivi”, annullando le competenze delle Commissioni Interne, e cercando di imporre trattative individuali con l’azienda. Tutto ciò, generò un tale malcontento, il quale condusse ad uno sciopero durato 93 giorni, nel 1913, a seguito del quale la FIOM ottenne il diritto di rappresentanza dei lavoratori e il riconoscimento della contrattazione collettiva.
Nonostante il 1913 si fosse concluso con dei risultati positivi, già negli ultimi mesi dell’anno, dal mercato automobilistico si cominciarono ad avere dei segnali non molto rassicuranti: “Dalla seconda metà del 1913 avevano cominciato a farsi sentire con più intensità i venti freddi della concorrenza straniera, specialmente dell’industria americana ormai in grado di sfornare mezzo milione di vetture all’anno. Da allora le vendite erano rallentate e le esportazioni della FIAT avevano subito un forte calo. Perciò la domanda connessa alla motorizzazione pubblica, ed in particolare a quella militare, era l’unico fattore che consentisse una crescita della produzione tale da assicurare concreti vantaggi dimensionali e quindi reali economie di scala”[2].
Fu proprio lo scoppio della Grande Guerra a dare una forte spinta propulsiva ai “sovraprofitti di guerra” (come vennero definiti all’epoca) della Casa torinese, grazie alle commesse belliche. Così, nel settembre 1914, iniziarono ad arrivare i primi ordinativi: 1.700 autoveicoli militari (soprattutto camion 18 BL per l’esercito). Nell’arco del conflitto bellico la produzione raggiunse i 56.000 veicoli e il numero degli operai impegnati salì alle 40.000 unità. In questo modo, nel 1917 il patrimonio personale di Agnelli era stimato intorno ai 50 milioni, con una quota di capitale della FIAT pari al 10,4%[3]. Alla fine della conflitto, la Casa torinese era diventata un impero industriale e finanziario sullo scenario nazionale. Ciò rese necessario la messa in opera di una nuova fabbrica più grande, dato che gli stabilimenti di corso Dante, ormai non era più in grado di far fronte, da soli, a tutto il volume di produzione. Tra il 1916 e il 1919, quindi, si assisté alla nascita del nuovo stabilimento: il Lingotto, che ebbe il primato di essere la prima fabbrica europea di automobili progettata e organizzata per la produzione industriale di massa. In questo modo, con Giovanni Agnelli che diventa il Presidente nel 1920 e con l’inaugurazione del Lingotto nel 1923, comincia la nuova era della FIAT.
Tuttavia, nonostante l’Italia fosse uscita vittoriosa dalla Grande Guerra, venne messa in ginocchio dal dopoguerra. L’ambizioso neo presidente, ben consapevole del fatto che potere politico ed economico devono procedere all’unisono se non si vogliono annullare a vicenda, arrivò a sostenere che, “Noi industriali siamo ministeriali per definizione” e ancora, “Con chiunque, purché questo coincida col bene dell’universo (cioè della Fiat)”. E così, quando Mussolini arrivò al potere, tra i due si istaurò un clima di “reciproca cortesia”. L’appoggio al regime fascista fece prosperare la FIAT. Infatti, grazie ad esso, la Casa automobilistica riuscì a ripristinare la “pace sociale” in fabbrica e ad usufruire di politiche protezionistiche e commesse statali. Come era scritto su una pubblicazione della FIAT degli Anni Trenta, “Il tempo sinistro del sovversivismo distruttore, che da noi culminò nell’episodio tragico dell’occupazione delle fabbriche, è passato per sempre… Sorse Mussolini, il liberatore e il ricostruttore, e l’Italia che non poteva morire fu tutta con lui”. Nello specifico, la “tranquillità” nelle fabbriche fu garantita, innanzitutto, dal Patto di Palazzo Vidoni, siglato da Governo e Confindustria il 2 ottobre 1924, il quale stabiliva lo scioglimento delle Commissioni Interne ed attribuiva alle corporazioni fasciste l’esclusiva della rappresentanza sindacale. Inoltre, dal 1929 venne introdotto nella fabbriche il cosiddetto “sistema Bedaux” (controllo cronometrico delle lavoro), che rendeva possibile l’intensificazione dei ritmi di produzione ed una consistente riduzione dei cottimi. In questo modo, dalla metà degli anni Trenta, la FIAT conobbe una crescita esponenziale mediante le commesse militari. In particolare, dopo un anno circa dell’invasione italiana dell’Etiopia (3 ottobre 1935), il fatturato della FIAT passò da 750 milioni a 1 miliardo e 400 milioni (avrebbe superato i 2 miliardi nel 1937), mentre la manodopera toccò le 50.000 unità.
Fu lo scoppio della seconda guerra mondiale, però, ad incidere significativamente sugl’introiti della FIAT: nel primo trimestre del 1940, il fatturato aveva registrato un aumento rispetto allo stesso periodo del 1939 pari a + 166 milioni di lire[4]. Ciò fu determinato dalle maggiori esportazioni di camions, velivoli, motori d’aviazione. Tuttavia, ogni moneta ha la sua doppia faccia così dopo i benefici, la Casa torinese si trovò a dovere pagare lo scotto per le scelte fatte, che avrebbero condotto alla fine di un’era. Infatti, il 23 febbraio 1943 Giovanni Agnelli diede le sue dimissioni, lasciando la carica di amministratore delegato e allo stesso tempo, propose al Consiglio di Amministrazione di fare entrare il nipote Gianni “nella famiglia della FIAT”. Dopo vent’anni di “pace forzata” imposta dal regime fascista, nelle fabbriche cominciarono, a partire dal 5 marzo, una serie di agitazioni da parte degli operai che, dall’11 marzo si estese a tutti gli stabilimenti. Le agitazioni si intensificarono tra marzo e novembre del 1944, generando dure rappresaglie, fino a giungere, all’atto finale nell’aprile 1945 quando gli operai assunsero il controllo della FIAT. Il 28 dello stesso mese, fu annunciata via radio l’apertura di un procedimento di epurazione nei confronti di Agnelli e Valletta. Questo condusse, nei primi giorni di maggio, all’insediamento di quattro commissari nominati dal CLN che, coadiuvati da un Comitato di gestione espresso dagli operai, guidarono la FIAT fino alla conclusione positiva della procedura di epurazione. A quel punto, essendo Giovanni Agnelli scomparso nel dicembre 1945, al timone fu richiamato Valletta, il quale riuscì a risollevare l’azienda, facendola prosperare fino all’ingresso, nella stanza dei bottoni, nel 1966, del giovane discendente “primo in linea dinastica”[5], Gianni Agnelli, anno in cui gli fu conferito l’incarico di Presidente.
(Segue la seconda parte)
FONTI: [1] V. V. Castronovo, FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999, p. 74).
[2] V. Castronovo, cit., pp. 83-84.
[3] G. Mori, “La Fiat dalle origini al 1918″, in Il capitalismo industriale in
Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 131-2.
[4] Documento interno della FIAT, cit. in Castronovo, p. 583.
[5] Definizione attribuita ad Indro Montanelli.
Rosy Merola