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IL CAIRO, 16 GENNAIO 2012 - Pubblichiamo la seconda parte della nostra "corrispondenza egiziana" (la prima potete leggerla qui) con Guglielmo Menichetti. Dopo aver cercato di capire, nella prima parte, quali sono stati i "preparativi" che hanno poi portato alle manifestazioni di piazza Tahrir, oggi ci concentreremo per lo più su due aspetti: il ruolo dell'esercito e gli effetti che le manifestazioni hanno avuto su chi ha deciso di non scendere in piazza. [MORE]
In Egitto più che negli altri paesi in cui è soffiato il vento della rivolta araba, la prima fase della rivoluzione più che “popolare”, sembra essersi caratterizzata come una rivolta “militare”.
Qui innanzitutto è necessario fare un distinguo tra i vari gruppi di polizia e una piccola postilla sul ruolo dell'esercito nella storia di questo paese. La polizia può essere suddivisa in tre macro-gruppi, distinguibili dalle fogge delle divise: ci sono i “bianchi”, che sono i poliziotti urbani e dediti spesso alle mansioni di normale amministrazione, i “neri” - la polizia speciale – spesso in assetto antisommossa, che nei periodi di “tranquillità” presidia i ministeri e gli altri luoghi istituzionali insieme ai militari; infine ci sono gli ufficiali di polizia militare, distinti dai baschi rossi. A onor del vero ci sarebbe anche la fantomatica “polizia turistica”, che la dice lunga sul ruolo che il turismo ha in questo paese, ma per quello che so io questi poliziotti passano le giornate nelle loro auto all'ombra sorseggiando tè.
Dicevi dell'importanza dell'esercito...
L'esercito, per quanto diviso nei vari dipartimenti come in ogni altro Stato, è divisibile, a mio avviso, in due macro categorie di natura più sociologica che gerarchica: soldati semplici ed ufficiali. I primi, nell'ottica della gente, sono assimilabili ai poliziotti normali, sono “figli della Nazione”, in un paese dove la leva dura tre anni e le grandi svolte storiche sono sempre avvenute con il loro contributo, quest'entità assume tratti quasi familiari dal punto di vista psicologico.
Si tenga presente poi, che dal XIX secolo l'esercito non è stato solo parte dei grandi mutamenti occorsi in Egitto, ma ne è stato il primo attore: Muhammad Ali che strappò la concessione per il vice-regno egiziano ad Istanbul era un soldato, così come Ahmad Urabi, che condusse il primo movimento di unità – più o meno concreta – contro i turchi-circassi del regime ottomano (per quanto vice-regno, l'Egitto era una provincia ottomana a tutti gli effetti). L'epoca più recente dei vari Nasser, Sadat e Mubarak è forse di più vicina frequentazione per il lettore.
Le recenti proteste contro lo SCAF sono, nei termini della loro veemenza, una cosa abbastanza nuova. È difficile trovare nella storia egiziana un fioccare di slogan contro “il governo dei militari”. Questa posizione intermedia, presa ad esempio da Mihammed Tantawi Sulayman, leader dello SCAF (attualmente a capo del governo, ndr) potrebbe essere l'inizio di una nuova visione dell'esercito da parte del popolo egiziano. Egli non ha istituito un partito politico come Sadat, né si è imposto “in solitaria” come Nasser. Adesso l'Egitto è costretto a chiamare il governo con il suo nome: governo militare.
Tra piazza Tahrir e le elezioni, comunque, c'era quella parte di popolazione che, come dicevamo, viveva la propria quotidianità con o senza piazza Tahrir.
La situazione economica del paese è peggiorata sensibilmente dopo il 25 gennaio, l'instabilità politica non giova al turismo e all'economia. Ma nemmeno al tasso dei mutui, il prezzo degli affitti eccetera: la loro situazione è precipitata.
I ragazzi che sono scesi in piazza credevano di aver raggiunto un sogno, ma si sono trovati offesi e maltrattati e ancora sotto il governo militare, solo che adesso potevano attaccarlo direttamente, non dovevano più mirare ad un'effimera costruzione partitica.
La situazione economica di chi non è sceso in piazza a me è parsa essere migliore di quella di chi aveva deciso di occupare piazza Tahrir. Certo, non mi è difficile pensare che la situazione economica e la pazienza nei confronti dei partiti in attesa di una normalizzazione siano dati direttamente proporzionali.
Poi c'era la situazione internazionale: la Tunisia aveva concluso da poco la sua prima tornata elettorale libera. Con problemi, inciampi, un po' di violenza e un sistema partitico con alcuni grossi punti interrogativi, ma ce l'avevano fatta. Perché gli egiziani no?
I giovani con la brillantina si vedevano in piazza e nelle strade intorno, erano quelli che uscivano dai lacrimogeni e andavano alla zona piena di caffé, detta Bursa, per prendere una boccata d'ossigeno dove erano soliti uscire fino alla sera prima a bere e a dire che la “thawra mustamarra”, la rivolta continua. E in quei momenti penso che effettivamente la piazza, il movimento, incontrassero il mondo esterno, altrimenti assai lontani. Perché, qui merita sottolinearlo nuovamente, la piazza non sembrava certo l'immagine di tutto il Cairo, era uno spaccato, secondo me, di parti della popolazione cairota.
Hai avuto modo di relazionarti con i giovani egiziani. Qual è stata la tua sensazione?
Parlando con uno degli accampati mi sono sentito dire che la gente di Wust el-Balad, del centro città, fosse screanzata a non scendere in piazza e dare una mano invece che chiudersi in casa a pensare ai soldi che stavano perdendo non potendo aprire i negozi. Ora, che questa assenza dei commercianti dal centro fosse vera o meno, rimane il senso di frustrazione e di incomunicabilità tra la piazza e il resto, di gran lunga la maggioranza della popolazione.
I partiti non hanno offerto chiavi di lettura tramite le quali le proprie basi potessero leggere la situazione e credere in un progetto, un programma. Così, sia chi non è sceso in piazza, sia chi l'ha fatto, l'ha fatto per mancanza di prospettive concrete e sentendo la longa manus dello SCAF sempre più forte. Di questo mi sono ancora più convinto andando a visitare la piazza a scontri finiti, c'era un'aria strana che in molti hanno paragonato a un “tentativo malriuscito di festa dell'Unità”. La battuta, sfortunatamente, era pertinente. C'era lo zucchero filato, i bambini con i cartelli sulla rivoluzione, i venditori di patate dolci arrostite e qualcuno riusciva pure a cantare. Nella piazza si scatenavano giornalisti e fotografi, c'era la preghiera del venerdì alla quale ha partecipato pure al-Baradei.
Ma in realtà, con un po' di accortezza, si poteva misurare con facilità la distanza che correva tra i raggruppamenti in piazza. Da alcuni giorni il servizio d'ordine auto-organizzato perquisiva la gente in entrata e uscita, misura resasi necessaria dopo che alcune persone si erano introdotte con dei piccoli taser. Chi, come me, entrava da via Talat Harb, veniva perquisito dai socialisti (riconoscibili dal giornale in vendita nei loro stand e dal fatto che fossero estremamente europeisti). L'uomo che mi ha perquisito mi ha chiesto scusa e mentre mi guardava rapidamente il passaporto mi ha sorriso dandomi il benvenuto. Chi, invece, entrava da via Mariette Pasha, la strada a fianco del Museo Egizio, si trovava davanti i salafiti, che chiedevano molte più spiegazioni sulla presenza di un europeo in piazza, accettando – ma non gradendo – la presenza. In tal senso è da sottolineare anche il ruolo della televisione di Stato, che come succede spesso, paventa la presenza nel paese di spie americane, europee e israeliane. Si aggiunga questo alla presenza dei tre americani dell'American University del Cairo arrestati mentre preparavano le molotov e si spiegano le pressioni, per quanto presenti anche a gennaio, contro gli stranieri.
(foto: fanpage.it ; fotogallery: arabist.net)
(2 - Continua)
Andrea Intonti