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IL CAIRO, 14 GENNAIO 2012 - Tra una crisi economica che attanaglia l'Europa, un dibattito sulle liberalizzazioni e un problema Equitalia, i nostri media hanno – letteralmente – spento la luce sulla rivoluzione in Egitto. Durante le feste abbiamo cercato di capirne di più, scandagliando quello che nei giornali mainstream è stato poco evidenziato, spostando la luce – come insegna Bernardo Valli - in quei dieci centimetri “più a destra e più a sinistra” di solito ignorati dalle telecamere dei grandi gruppi giornalistici. [MORE]
Per raccontarci quello che è successo ai margini della piazza, abbiamo intervistato Guglielmo Menichetti, un giovane studente italiano – attualmente iscritto alla laurea magistrale in Scienze delle Lingue, storia e cultura dei paesi arabi e del Mediterraneo all'università Orientale di Napoli – che si trovava in Egitto durante gli scontri per scrivere la sua tesi di laurea.
Siamo partiti da due considerazioni: capire quanto l'immagine mediatica che ci veniva fornita in quelle settimane dell'Egitto in rivolta fosse vicina all'immagine che la rivolta dava di sé “a telecamere spente”, cercando di capire al contempo cosa succedeva in quella parte di Egitto che – per scelta o per altri motivi – aveva deciso di non scendere in piazza.
Quella che vi presentiamo di seguito, è la prima parte del suo racconto.
Rimanendo, per così dire, nelle “vicinanze” di piazza Tahrir – se non tanto in termini geografici quanto meno in termini temporali – quali sono stati i “preparativi” per quello che abbiamo poi visto in televisione e letto sui giornali?
La prima questione che si pone è il paragone – che per chi era qui è stato quasi sconvolgente al primo impatto – con le notizie o le esperienze di amici presenti riguardo al 25 gennaio, giorno della cacciata di Hosni Mubarak.
La città era quasi completamente toccata dal fermento, così come le altre città medie e piccole. In questa rivolta, il massimo inconveniente che ha avuto chi, come me, abitava a circa un chilometro dalle zone interessate dalle rivolte, è stato il doversi ritirare quando il vento spirava da nord a sud e i fumogeni rendevano la situazione difficile. Nient'altro.
Quindi al di fuori di quella ristretta area non c'è stata una concreta intromissione dei fatti nella vita quotidiana delle persone, se non di chi ha scelto di stare in piazza.
Fin da settembre il ministero della Salute e Abitazioni in via Falaki è stato oggetto di sit-in e proteste pacifiche, spesso condotte da gruppi di abitanti delle case popolari. Un mese prima degli scontri c'è stata un'altra protesta che è riuscita a raggiungere il ministero degli Interni: quella della polizia. Da quando sono tornato (ci ero già stato altre volte) le camionette hanno sempre stazionato tra via Falaki e Nubar, una cosa che però non deve sorprendere né far gridare alla preveggenza del Consiglio superiore delle forze armate (Scaf, la sigla inglese viene riutilizzata anche in Egitto)
Come si è organizzata, materialmente, la piazza?
La piazza è stata subito coperta da tende e dotata di un ospedale di campo che ha avuto a che fare con fumogeni (scaduti) e proiettili di vario genere. La rivolta è cominciata con un sit-in, seguito da un tentativo di sfollamento violento, dalla reazione della gente nel tentativo di riappropriarsi della piazza e, infine, è arrivato il momento delle grandi divisioni: i Fratelli Musulmani hanno scelto di togliere il proprio supporto alla piazza, i protestanti si sono divisi tra chi è rimasto costantemente in piazza Tahrir e chi ha cercato di raggiungere il ministero degli Interni.
Entrando nell'accampamento, come era peraltro lecito attendersi, le tende erano frequentate da gente di uno stesso colore politico e da quel poco che ho visto mi sa che ci sono anche stati diverbi tra tende.
Questo per dire quanta poca coesione ci fosse tra i partecipanti alla piazza, uniti solo da un obiettivo massimalista, come tra l'altro il gruppo “Kifaia!” (“Basta!”), che aveva cercato di animare l'ambiente politico egiziano contro Mubarak negli ultimi 5 anni di regime. Ne facevano parte a tratti i Fratelli musulmani, socialisti, copti e repubblicani, in una riottosa convivenza che poi ha dato, in parte, i natali al Blocco Egiziano.
Adesso dopo 42 morti accertati siamo arrivati alle elezioni dove la vittoria di partiti islamisti era annunciata. Una vittoria che però, probabilmente, è stata costruita fuori dalla piazza.
Dato che ci stiamo concentrando sul modo in cui l'Egitto è arrivato, pian piano, alle manifestazioni e – successivamente – alle elezioni, spiegaci un po' come si è arrivati a questa storica tornata elettorale.
Nel periodo tra gennaio e settembre è stato un grande vuoto politico, ma non di autorità. La presidenza dello SCAF insediatasi non ha fatto molto per traghettare il sistema dal monopartitismo autoritario di Mubarak a un sistema pluripartitico e democratico. Anzi, ha svuotato ulteriormente d'autorità, a proprio favore, il sistema politico.
Il Blocco egiziano – dove sono confluite quelle forze nate e radicatesi nella primavera – ha fatto uno stranissimo gioco al ribasso, come i repubblicani di ferro nei confronti dell'intellighenzia militare, fino a chiedere di rimandare le elezioni a settembre, forse perché consci della propria inferiorità nei confronti dei Fratelli musulmani e dei salafiti. Inoltre si sono dimostrati molto blandi nei confronti della situazione stessa di “patrocinio sull'autorità politica” assunta dallo SCAF: chiaro che anche chi avrebbe voluto votarli si è rivolto altrove nel momento del bisogno. Quindi non stupisce il magro terzo posto generale alle elezioni.
Queste concessioni d'autorità politica hanno rinvigorito lo SCAF che si è trovato nella posizione di essere il “difensore” della rhawra (la rivoluzione), quindi di essere quasi la fonte di legittimità dei partiti ma contemporaneamente anche il loro referente politico. In tutto questo i Fratelli musulmani usavano la propria tattica di presentarsi sul luogo delle dimostrazioni solo nei momenti di tranquillità, uscendone nei momenti di lotta e rientrandovi alla fine, a favore del partito Libertà e Giustizia, distribuendo cibo gratuito e predicanti seguiti e a volte preceduti dai salafiti della coalizione guidata dal partito Luce. Anche le associazioni di copti, un po' per paura di una nuova Maspero (scontri contro la polizia a settembre), un po' per complicare ulteriormente i piani del Blocco, del quale - nota bene - fanno parte sebbene in maniera incostante, minacciando sempre una presenza islamista all'interno della coalizione, hanno preferito farsi vedere in maniera timida, da ultimo distribuendo medicinali.
(foto: gliitaliani.it e google maps)
(1 - Continua)
Andrea Intonti